Qui è cambiato tutto. Qui non cambia mai nulla. Chi ritorna tra Palestina e Israele dopo qualche anno di assenza può venire travolta da un’impressione in apparenza doppia, contraddittoria: che non cambi mai niente, che sia tutto cambiato. In peggio.
La contraddizione è meramente fittizia: è la realtà sul terreno quella che le dà ragion d’essere, negli occhi che a stento riconoscono le colline di uliveti mangiate da altri anelli di colonie, che vedono nelle vallate che abbracciano la città vecchia di Gerusalemme l’ennesimo «progetto turistico-archeologico» gestito da associazioni dell’estrema destra israeliana, che scoprono nuove forme di dipendenza economica con i palestinesi che sempre di più si offrono come manodopera a basso costo in Israele perché in Cisgiordania il lavoro non paga e la terra è inaccessibile.

Cambia tutto perché non cambi nulla. È questo forse il senso più profondo di Oslo: un processo di pace che non aveva come fine ultimo una pace giusta e dunque durevole, ma semplicemente se stesso. Un negoziato infinito, senza sbocchi reali perché le premesse sono irrealistiche, un negoziato che è esso stesso lo scopo e non il mezzo.

Solo così è stato possibile – e trent’anni dopo è più chiaro che mai – cementare l’occupazione israeliana nei Territori palestinesi fino a farle superare anche i confini labili del 1967 e pervadere l’intera Palestina storica – lo Stato di Israele e i Tpo – in un regime che ormai è unico ed è un regime di supremazia razziale e religiosa. Non lo nega quasi più nessuno in Israele. Lo dicono ex capi del Mossad e vertici dell’esercito, scrittori e intellettuali, storici orgogliosi sostenitori del progetto sionista: Israele ha creato un regime di segregazione di cui Oslo è stato tassello fondamentale, la cassetta degli attrezzi. E gli ha permesso di ridarsi legittimità dopo le mostruosità di Sabra e Chatila e gli anni caldissimi della prima Intifada, con il mondo che scopriva quasi con stupore un popolo che lottava solo con le pietre e la disobbedienza civile. Oslo ha ridato a Israele una verginità (e un’impunità) che il giorno dopo quella stretta di mano era già tradita. E che oggi si chiama apartheid.

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