Da un secolo l’estetica politica detta i tempi, i modi, la forma delle campagne elettorali turche. Una forma che esprime contenuti senza bisogno di comizi. Succede da cent’anni, non poteva non succedere ieri, quando ai due principali sfidanti alla carica di presidente della repubblica si è guardato per vedere a quale paese intendessero rivolgersi, nelle ore febbrili della vigilia di un voto che – in un modo o nell’altro – cambierà la faccia della Turchia.

I due non hanno deluso. Kemal Kılıçdaroglu, presidente del partito repubblicano Chp e candidato di un’opposizione finalmente unita, l’Alleanza della Nazione, ha reso omaggio alla propria storia: è apparso ad Anıtkabir, al mausoleo dedicato al padre della nazione Mustafa Kemal Atatürk. Il fondatore della repubblica, l’ideologo del laicismo di stato che da un paio di decenni il Partito Giustizia e Sviluppo (Akp) annebbia dietro un neo-ottomanesimo dichiaratamente islamista.

«MOSTREREMO al mondo intero che il nostro bellissimo paese può portare democrazia usando metodi democratici», ha detto Kılıçdaroglu, a capo di un partito orgogliosamente kemalista. Non mancano le contraddizioni dietro la scelta: se per l’Alleanza della Nazione è il modo più ovvio per allargare il gap tra la propria narrazione e quella dell’Akp, porta con sé il peso brutale di una storia fatta di turchizzazione forzata e negazione delle identità curde, armene, greche.

La redazione consiglia:
Maxi retata contro la sinistra turca e curda: 126 arresti a venti giorni dal voto

Un dubbio che all’attuale presidente, Recep Tayyip Erdogan, non viene nemmeno in mente di porsi, lui che in vent’anni di potere ha costruito una Turchia a propria immagine, sperando di farsi nuovo riferimento politico e culturale di un mondo musulmano privato dell’antica leadership araba, con l’Egitto e la Siria – storiche sue guide – abbattuti a suon di guerre civili e dittature striscianti.

ERDOGAN NON poteva che chiudere la campagna elettorale nel luogo che più di altri ne rappresenta l’eredità politica: Hagia Sofia, la basilica-museo da lui tramutata in moschea (ribaltando l’ordine di, guarda un po’, Atatürk), da simbolo dell’universalismo culturale a modello dell’identità unica.

È qui, nel sito più iconico di una Istanbul che è un mix di vite e rivendicazioni diverse – Lgbtqi+, femministe, islamisti, ultrà, curdi, cristiani, rifugiati –, che Erdogan ha chiuso la sua campagna elettorale: guidando la preghiera, secondo un antico rituale ottomano, il sultano che così inviava i suoi uomini alla guerra.

L’islam come scudo, di fronte a un paese alle prese con una crisi economica devastante e auto-prodotta: non c’è analista che non legga nelle politiche clientelari e di potenza dell’Akp le origini di un’inflazione esplosiva (85% ufficiale, 105% ufficiosa) e una lira che non vale quasi nulla.

Alla vigilia Erdogan ha tenuto a precisare, seppur in modo sibillino, che qualsiasi sia il risultato rispetterà la volontà di elettrici ed elettori: «Siamo saliti al potere con metodi democratici. Se il nostro popolo ha cambiato idea, faremo quel che la democrazia richiede».

DI FRONTE ha la sfida elettorale più seria della sua lunga carriera. Opposizioni unite che i sondaggi, tutti, danno in testa con qualche zero virgola di differenza. Kılıçdaroglu potrebbe farcela al primo turno, c’è chi gli riconosce fino al 52%, due punti in più del necessario per evitare l’eventuale ballottaggio del 28 maggio.

La redazione consiglia:
Opposizioni unite sullo sfidante di Erdogan. Non sul programma

Resta da vedere cosa accadrà dopo. E i dubbi si affollano: se l’Akp concederà la vittoria o se, forte del pugno in cui stringe tutte le istituzioni dello stato grazie alla campagna di epurazione del post-golpe 2016, ribalterà il risultato. E se, soprattutto, quella coalizione sgangherata che va dai liberali ai conservatori anti-Erdogan, saprà condurre in parlamento una maggioranza non solo stabile ma capace di non litigare sulle riforme future.

Il ruolo del pivot lo giocherà la sinistra filo-curda dell’Hdp che appoggia Kılıçdaroglu ma alle parlamentari corre da sé come Green Left, con il suo bagaglio del 10-12% di voti. Il sud-est a maggioranza curda dovrà digerire il sostegno al più antico partito turco, quel Chp che nei decenni passati ha fatto del nazionalismo turco marchio di fabbrica e di abusi.