Il primo round tra Unione europea e Tunisia per salvare il piccolo Stato nordafricano è terminato questo lunedì. In un contesto dove le agende internazionali hanno segnato in rosso il fenomeno migratorio proveniente dalla sponda sud del Mediterraneo, aiutare economicamente Tunisi sembra essere la soluzione di tanti problemi e la garanzia di stabilità per il Vecchio Continente.
Non è così. Oggi i numeri parlano di un deciso aumento delle partenze dalla Tunisia. Secondo il Forum tunisino per i diritti economici e sociali, ci sono 3mila persone che partono ogni giorno. Su 26mila persone che sono arrivate in Italia (i numeri comprendono anche le traversate dalla Libia), più della metà hanno come punto iniziale le città di Sfax, Mahdia e Zarzis. La Guardia costiera di Tunisi ne ha intercettate 14mila. Numeri, questi, che se paragonati agli anni scorsi mostrano una domanda sempre più frequente e un’offerta che non manca. Sono quattro volte di più rispetto al 2022 e tredici se paragonati al 2020, l’anno della pandemia di Covid-19.

Le recenti parole del presidente della Repubblica Kais Saied pronunciate contro la comunità subsahariana nel paese hanno alimentato un fenomeno crescente che dal 2017 a oggi vede nella Tunisia uno dei punti focali per le partenze: «Esiste un piano criminale per cambiare la nostra composizione demografica. La presenza dei subsahariani è fonte di violenza, crimini e atti inaccettabili, è il momento di mettere la parola fine a tutto questo».

Per questo e altri motivi il Commissario europeo per gli affari economici e monetari Paolo Gentiloni si è recato a Tunisi lunedì per incontrare i più alti quadri del governo, tra cui Kais Saied e la premier Najla Bouden Romdhane. Gentiloni non ha fatto mancare il suo appoggio al paese, interessato da una forte crisi economica decennale che sempre nei numeri mostra tutta la sua gravità: inflazione al 10 per cento; tasso di disoccupazione superiore al 15 per cento e un debito pubblico che sfiora il 100 per cento del Pil. Cifre che si riversano nel potere di acquisto dei tunisini, da anni in forte calo, nell’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità e nelle debolezze interne dello Stato, sempre più in difficoltà nel garantire le importazioni necessarie a fare funzionare il sistema Tunisia.

Da diverso tempo il Fondo monetario internazionale (Fmi) e il governo stanno portando avanti dei negoziati per chiudere un prestito da 1,9 miliardi di dollari, ritenuto fondamentale anche da Bruxelles per ridare slancio alle casse dello Stato ormai vuote e rilanciare altri tipi di finanziamenti internazionali: «Vogliamo continuare ad accompagnare la Tunisia nella sua crescita economica e nel produrre nuovi posti di lavoro e migliori prospettive per i tunisini, in particolare le donne e i giovani», ha affermato il Commissario europeo.

Ci sono due ordini di problemi: il primo è che questi negoziati sono stati sospesi lo scorso dicembre per le mancate garanzie offerte, sia da un punto di vista economico che politico; il secondo è l’effetto sul terreno di questo tipo di finanziamenti.

Il Fondo monetario internazionale si è detto pronto già nel maggio 2021 a intraprendere dialoghi per un prestito strutturale. Le richieste sono state fin da subito molto chiare: sostituire le sovvenzioni dirette dei prodotti alimentari e di servizio con aiuti diretti alle famiglie, con l’intento di eliminarle definitivamente nel 2024; la riduzione della massa salariale nel settore pubblico, uno degli elementi cardine del sistema nazionale tunisino ed esplosa durante la pandemia nel settore della sanità; programmi di pensionamenti anticipati o di lavoro part time. In attesa del prestito, in questo modo la Tunisia avrebbe dovuto cominciare a contenere la massa salariale attorno al 15 per cento del Pil nel 2022 rispetto al 17,4 per cento del 2020.

Misure che non sono mai state messe in campo. Se vedessero la luce oggi, in un momento dove i problemi anziché diminuire sono aumentati esponenzialmente, il rischio è che una volta applicate possa esplodere una bomba sociale. Sui tavoli europei, questo si tradurrebbe con i rischi di una forte instabilità in uno dei paesi chiave del Nord Africa e un possibile aumento delle partenze.