Salman Rushdie non è solo l’autore dei Versi satanici, ovvero uno scrittore che, per aver pubblicato un libro ritenuto blasfemo dagli integralisti islamici, si è visto comminare una condanna a morte dall’ayatollah Khomeini.

Quando lo colpisce la fatwa iraniana, Rushdie ha già al suo attivo un romanzo che ha cambiato la faccia della letteratura inglese, I figli della mezzanotte, apparso nel 1981 e subito premiato con il prestigioso Booker Prize (sarà in seguito Best of Booker nel 1993 e nel 2008), una vicenda in cui magia e realtà si mescolano per narrare la storia dell’India indipendente attraverso le avventure di un personaggio nato il giorno dell’indipendenza indiana, proprio allo scoccare della mezzanotte e, per questo, dotato di poteri magici come tutti i bambini nati in quel momento, ma anche crudamente “ammanettato alla storia”.

Una storia scritta da un punto di vista ‘altro’, soggettivo, demistificante, irrealistico e irriverente e perciò stesso sovversiva, in un linguaggio che non ha nulla a che spartire con lo standard english della letteratura canonica, ma è l’inglese dei bazaar indiani, spurio, zeppo di imprestiti da ogni sorta di lingue e dialetti, ricco di neologismi e giochi di parole.

L’uso di quella che si può definire una “storiografia fantastica”, nella consapevolezza che immaginare storie è sempre e comunque un atto ideologico, è il marchio di fabbrica di tutta la produzione rushdiana: creatore di miti piuttosto che semplice romanziere, Rushdie racconterà nel 1984, in La vergogna, la storia del Pakistan sotto forma di Grand Guignol: e se I figli della mezzanotte gli era valso le ire di Indira Gandhi, nel 1984 Zia Ul-Haq, riconosciutosi in un crudele e inetto personaggio de La Vergogna, ordina 50 scudisciate a chiunque venga sorpreso a leggere il romanzo o ne possieda una copia.

Nel 1988, Rushdie termina la trilogia dedicata all’Asia meridionale con un’epopea fantastica della diaspora asiatica nel Regno Unito, I versi satanici. “Scrittore contro” per antonomasia («Ho speso tutta la mia vita come autore all’opposizione, e ho sempre compreso nel ruolo dello scrittore la funzione di antagonista dello stato», ha scritto), nei Versi satanici ribadisce la sua convinzione che compito dello scrittore è «Nominare l’innominabile, indicare le frodi, prendere posizione, iniziare i dibattiti, scuotere il mondo e impedirgli di addormentarsi».

È quello che continuerà a fare anche durante i difficili anni successivi alla fatwa, raccontati molto tempo dopo nel memoir Joseph Anton: un decennio di lotte per la propria libertà e per l’affermazione della libertà di parola, durante il quale metaforizza la sua esperienza di cantastorie zittito da un malvagio potere nella favola Arun e il mar delle storie; scrive due romanzi, L’ultimo sospiro del Moro e La terra sotto i suoi piedi, in cui, ancora una volta, intreccia storia e storie, ancorando i fatti alla loro rappresentazione virtuale e al racconto che altri media e altre forme artistiche ne forniscono.

Approdato a New York nel 2001, con Furia cerca di raccontare il presente nel suo manifestarsi e offre una visione quasi profetica della furia che, di lì a poco, si abbatterà sulla metropoli americana (il romanzo esce soltanto una quindicina di giorni prima dell’11 settembre). Seguono, dagli Stati Uniti, dove si è ormai trasferito, Shalimar il Clown, forse il miglior lavoro della sua stagione americana, in cui, tra molte storie intrecciate si trova anche quella di un funambolo che diviene terrorista; L’incantatrice di Firenze, ambientato nel Rinascimento italiano, che vede tra i personaggi anche Machiavelli; Due anni, otto mesi e ventotto notti, una fiaba ispirata dalla favolistica orientale della sua infanzia e La caduta dei Golden, ritratto parodico dell’America di Trump. Il suo ultimo romanzo, Quichotte, è un tour de force narrativo in cui al cavaliere di Cervantes si affianca Alice e il grillo parlante di Pinocchio incontra il Rinoceronte di Ionesco in un vorticoso girotondo di intertesti.