La torcia, il giaguaro e il golpe
Olimpiadi 2016 Brasile, i grandi interessi in gioco nella grave crisi che attanaglia il paese
Olimpiadi 2016 Brasile, i grandi interessi in gioco nella grave crisi che attanaglia il paese
La torcia e il giaguaro. Si potrebbe raccontare anche così, con l’immagine del felino che trascina la torcia e poi viene abbattuto dai militari, la crisi del Brasile alla vigilia dei Giochi olimpici. Portato fuori dallo zoo, il giaguaro (simbolo del paese) ha cercato fino all’ultimo di sfuggire ai suoi carcerieri che volevano addormentarlo, preferendo morire libero che tornare in gabbia. Andrà a finire così anche per la democrazia brasiliana? Il ciclo progressista verrà stroncato dai gruppi economici che hanno organizzato il «golpe istituzionale» contro Dilma Rousseff? Oppure il «lulismo» si lascerà addormentare, finendo in gabbia o in soffitta?
Sui Giochi olimpici, tira una brutta aria: «un’aria contaminata», ha detto Rousseff in un’intervista a la Jornada, annunciando che non sarà presente alla cerimonia d’apertura delle Olimpiadi: rifiutando così la seconda fila che le avrebbe riservato il suo ex vice, ora presidente a interim, Michel Temer. Diserterà la festa anche Lula da Silva, sotto il cui mandato il Brasile aveva ottenuto l’assegnazione delle prime olimpiadi della sua storia. Lula, sempre popolarissimo, ha annunciato la propria candidatura alle presidenziali del 2018. Tuttavia, pende su di lui un procedimento giudiziario, la cui notifica (con tanto di traduzione forzata in caserma) gli ha impedito di assumere l’incarico di ministro della Presidenza conferitogli da Rousseff prima della sospensione.
Un’aria contaminata, prima di tutto, dal golpe istituzionale che ha sospeso Dilma dall’incarico, sottoponendola a un processo d’impeachment ora giunto alla battuta finale. Contaminata da una crisi politica economica istituzionale che appare la peggiore dalla fine della dittatura militare (1985). Contaminata dai venti conservatori tornati in tromba in America latina.
Un’aria fetida di trame e corruzione diffusa dall’inchiesta Lava Jato, la «Mani pulite» brasiliana. La gigantesca indagine coinvolge esponenti del mondo politico, imprenditori, e funzionari della petrolifera di Stato Petrobras. Molte delle imprese edili indagate hanno incamerato oltre 27 miliardi di real sul totale di 37,6 investiti per i Giochi olimpici. Miliardi che di certo non sono stati impiegati per la sicurezza degli spalti e per quella sul lavoro, visti i crolli, gli incidenti e le denunce.
GIUDICI E POLITICA
Diretta dal giudice Sergio Moro e pilotata dalla grande stampa, la macchina giudiziaria ha dato forza ai piani delle destre, decise a togliere i puntelli alla fragile maggioranza cucita da Rousseff nel suo secondo mandato. Nessuna inchiesta ha però mai messo in causa l’integrità della presidente. Recentemente, il Pubblico ministero federale ha anzi ritenuto di archiviare il fascicolo relativo alla cosiddetta «pedalata fiscale»: un’operazione di credito mascherato che ha motivato l’accusa di «crimine di responsabilità» per cui è stato avviato l’impeachment.
Il Supremo Tribunal Federal (Stf) ha ricevuto anche un’altra sentenza, emessa il 20 luglio dal Tribunale internazionale sulla democrazia. L’iniziativa è partita da un arco di organizzazioni e movimenti – Via Campesina, Fronte Brasile Popolare e Fronte giuristi per la Democrazia – che hanno convocato a Rio de Janeiro premi Nobel, intellettuali, giuristi e il Tribunale permanente dei popoli. La sentenza ritiene che l’impeachment a Dilma costituisca un colpo di stato e chiede al Tsf di annullare il procedimento, «per impedire la rottura dell’ordine costituzionale».
La natura pretestuosa dell’impeachment è apparsa chiara fin dall’inizio. Come altri presidenti e governatori prima di lei, Rousseff si sarebbe fatta anticipare il denaro dalle banche nazionali per rinnovare i piani sociali «truccando» il bilancio a fini elettorali. Misure sottoscritte anche dal suo vice di allora, Temer, a sua volta perciò a rischio di impeachment: ma, soprattutto, indagato per Lava-Jato. E mentre i grandi media – concentrati nelle mani di 4 grandi famiglie – sparavano le cifre del «disastro» brasiliano suggerite dal Fondo monetario internazionale, nell’ottobre del 2015 arrivava una sentenza della Corte dei Conti: per la prima volta dal 1937, la Corte non approvava il bilancio del governo.
Di ben altra consistenza le accuse contro Eduardo Cunha, allora presidente della Camera. Il potente capo delle chiese evangeliche, considerato un bandito politico, veniva ripetutamente chiamato in causa nell’inchiesta Lava Jato e per conti all’estero non dichiarati pari a 5 milioni di dollari. Dopo essere stato sospeso dall’incarico, a luglio Cunha si è dimesso. Sul piatto ha messo l’appoggio di Temer a una nomina che lo aiuti a conservare la carica di deputato, che gli consentirebbe di essere giudicato dal Tsf e non dalla giustizia ordinaria. Le informazioni di cui è in possesso farebbero colare a picco mezzo sistema politico. Nel frattempo, alcune registrazioni diffuse dalla stampa dimostravano le trame del golpe istituzionale, ordito da Cunha, Temer e soci per evitare di finire in tribunale. Bisognava togliere di mezzo la presidente, perché non avrebbe intralciato le indagini della magistratura: su di loro e sul Partito del movimento democratico brasiliano (Pmdb), alleato sempre determinante nel frastagliato quadro dei partiti, benché non abbia mai vinto un’elezione.
Che l’impeachment sia stato una «farsa grottesca», come lo ha definito Rousseff, è dimostrato dalla composizione di chi lo ha votato, sia in Parlamento che in Senato: un manipolo di corrotti e nostalgici della passata dittatura, che ha volgarmente insultato la presidente, inneggiando alle torture da lei subite durante il regime militare. Un «femminicidio simbolico», secondo la sinistra. E nel gabinetto messo in piedi da Temer – composto da soli uomini bianchi, anziani e ricchi in un paese ancora fortemente diseguale, dove donne e afrodiscendenti costituiscono la maggioranza -, su 23 ministri, 7 sono sotto processo o indagati per corruzione.
INTERESSI IN GIOCO
A chi risponda Temer è parso subito chiaro dai tagli e dagli orientamenti decisi dal suo governo di banchieri e uomini delle multinazionali. In nome del «risanamento fiscale», sta privatizzando e svendendo imprese. A giugno, sono state lasciate a casa 91.032 persone. Dopo l’annuncio di una prossima vendita delle terre alle imprese straniere, il Movimento Sem Terra ha annunciato un possibile sciopero generale a ridosso della decisione finale sull’impeachment, che dovrebbe arrivare subito dopo la conclusione dei Giochi olimpici. Il leader dell’Mst, Joao Pedro Stedile ha denunciato fin da subito i grandi interessi in gioco nella crisi brasiliana per togliere di mezzo Petrobras dallo sfruttamento del gigantesco giacimento del presal e aprire ulteriormente la porta alle multinazionali.
Sul piatto dei poteri forti, anche una nuova alleanza politico-strategica con l’Argentina tornata a destra, per chiudere la partita con gli organismi solidali sud-sud e con il protagonismo dei Brics. Per questo, è in corso un’operazione a tenaglia per disarcionare il Venezuela dal Mercosur, impedirgli di assumere la presidenza pro-tempore dell’organismo che le spetterebbe e proporre nuovi accordi neoliberisti alle alleanze commerciali dirette da Washington.
E mentre il Partito dei lavoratori promette di tornare alle origini e di svoltare a sinistra, i movimenti restano sul piede di guerra. Ma le misure «antiterrorismo» decise per i giochi di Rio (e criticate dalle grandi organizzazioni per i diritti umani), usano gli allarmi contro l’opposizione sociale.
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