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La terra dei fuochi americana

La terra dei fuochi americanaFlint (Michigan) è il teatro di uno dei più gravi casi di inquinamento degli Usa. Una cittadina tira un carretto pieno di acqua e cartelli per Black Lives Matter – Jake May/The Flint Journal via AP /LaPresse

Emergenza clima e razzismo Razzismo e scelte ambientali sono strettamente intrecciati. Il cambiamento climatico e l’inquinamento, spesso deliberato, colpiscono molto di più le comunità nere, native e ispaniche rispetto a quelle bianche

Pubblicato più di 4 anni faEdizione del 10 giugno 2020

Il cambiamento climatico è tecnicamente un «threat multiplier», un fenomeno moltiplicatore di minacce. Significa che si sovrappone e si stratifica su vulnerabilità preesistenti relative alla salute o alle diseguaglianze socioeconomiche, di genere e razziali. Il rapporto di causa-effetto tra razzismo strutturale e crisi climatica non è lineare.

È un circolo vizioso, l’uno alimenta l’altra.

 

Un’ansa del Mississippi, foto Ap

 

ALLA FINE DEGLI ANNI ’70 Robert Bullard, considerato il padre della giustizia ambientale Usa, raccoglieva dati a Houston, in Texas, per una causa civile intentata dalla moglie contro lo Stato per il progetto di una discarica all’interno della comunità nera.

Lo studio di Bullard rivelò che tra gli anni ’30 e la fine degli anni ’70, l’82% dei rifiuti di Houston era stato scaricato nei quartieri neri.

E questa scelta non era un caso isolato a Houston, ma si rivelò uno schema ripetuto a livello nazionale. Alla fine, i Bullard persero la causa in tribunale ma nacque il «razzismo ambientale».

Dopo anni di battaglie, ancora oggi lo stesso razzismo strutturale continua a dettare legge: è lo Stato a decidere dove vengono scaricati e smaltiti i rifiuti, chi riceve risorse per far fronte ai disastri climatici, dove vengono collocati impianti chimici, raffinerie, industrie tossiche. Tanto che si può parlare di vero «ecorazzismo».

Negli Usa, per esempio, l’emergenza climatica colpisce in modo sproporzionato le comunità nere.

 

Protesta per la morte di George Floyd, foto Ap

 

Mustafa Santiago Ali, cofondatore della sezione di giustizia ambientale dell’Environmental Protection Agency (l’agenzia federale che si occupa di ambiente) che si è dimesso sotto l’amministrazione Trump, ha dichiarato che l’ingiustizia ambientale riguarda la creazione di «zone sacrificabili» dove viene collocato dallo Stato tutto ciò che nessun altro vuole.

La giustificazione di questo processo è sempre economica, ovvero che ha senso costruire impianti chimici su terreni cosiddetti «a basso costo» dove vivono «i poveri e i neri» ma che in realtà sono a basso costo solo perché spogliate di ogni ricchezza e opportunità. Le persone che vivono in queste zone sono «invisibili, inascoltate e sottovalutate».

È INNEGABILE, quindi, che non si può parlare di giustizia ambientale senza comprendere il contesto storico della colonizzazione, del razzismo strutturale e del capitalismo.

I pericoli ecologici e i disastri climatici hanno un impatto più duro sugli afroamericani e le comunità di colore, sulle popolazioni indigene e le comunità a basso reddito.

Gli esempi Usa più eclatanti di questi ultimi decenni sono l’avvelenamento da piombo a Flint, nel Michigan, e l’inquinamento petrolchimico nella cosiddetta Cancer Alley, la strada del cancro della Louisiana.

Il razzismo è alla base della brutalità della polizia di cui i neri americani sono vittime ogni giorno e che ha portato all’assassinio di George Floyd.

Ma il razzismo è anche alla base della crisi climatica. Per questo non si può avviare un processo di giustizia climatica senza tener conto di una giustizia razziale.

Il Bronx Climate Justice North, organizzazione grassroots di giustizia ambientale affiliata alla più conosciuta 350.org, scrive sul proprio sito web: «Senza un focus sulla correzione delle ingiustizie, il lavoro contro il cambiamento climatico affronta solo i sintomi e non le cause che sono alla radice».

 

Bronx Climate Justice North

 

ALCUNE RICERCHE (vedi il sondaggio del 2019 «Cambiamento climatico nella mentalità americana» del Climate Change Communication, centro di ricerca dell’università di Yale) hanno dimostrato che le persone di colore negli Stati Uniti, tra cui ispanici/latini e afroamericani sono più preoccupate per il cambiamento climatico rispetto agli americani bianchi: rispettivamente il 69% e il 57% contro il 49% dei bianchi americani.

Al contrario, i bianchi hanno più probabilità di essere «dubbiosi o sprezzanti» (27%) rispetto agli ispanici/latini (11%) o agli afroamericani (12%).

Questo fenomeno è spiegabile, almeno in parte, con il fatto che le persone di colore sono più esposte e vulnerabili ai rischi ambientali e agli eventi atmosferici estremi.

Un aspetto importante di questa diseguaglianza sistemica è che le persone di colore hanno più probabilità dei bianchi di essere esposte all’inquinamento.

Le centrali di combustibili fossili, le raffinerie, le discariche, infatti, sono situate in modo sproporzionato nei quartieri neri e causano un sostanziale peggioramento della qualità dell’aria e un aumento dell’inquinamento.

 

La centrale a carbone nella Navajo Nation a Page (Arizona), foto Ap

 

A livello nazionale, i neri americani hanno tre volte più probabilità di morire a causa dell’inquinamento.

I tassi di asma nella comunità nera di Washington, per esempio, sono il doppio di quelli della popolazione bianca; questo dato segue una tendenza nazionale.

Tutto questo, come constatato dalle osservazioni statistiche sull’impatto del coronavirus nei quartieri neri, espone gli afroamericani a un rischio più elevato di subire gli impatti della pandemia.

I neri americani hanno quattro volte più probabilità di risultare positivi al Covid-19 e gli studi dimostrano anche che i tassi di mortalità da Covid-19 sono più alti nelle aree con aria inquinata.

«Sentite, mi piacerebbe ignorare il razzismo e concentrare tutta la mia attenzione sul clima. Ma non ci riesco. Perché sono umana. E sono nera. E ignorare il razzismo non lo farà sparire», ha scritto in un editoriale sul Washington Post la biologa marina Ayana Elizabeth Johnson.

«Come possiamo aspettarci che i neri americani si concentrino sul clima quando siamo così a rischio nelle nostre strade, nelle nostre comunità e persino nelle nostre stesse case? Come possono le persone di colore guidare efficacemente le loro comunità verso soluzioni climatiche quando si trovano di fronte a un razzismo pervasivo e che accorcia la vita? I neri non vogliono dover protestare per il diritto fondamentale di vivere e respirare. Non vogliamo dover giustificare costantemente la nostra esistenza», continua Johnson.

La lotta al cambiamento climatico è già dura di per sé. Molti ancora non sentono l’urgenza della crisi, non riescono a capire quanto l’umanità dipenda da ecosistemi intatti e non alterati dall’azione distruttiva dell’uomo.

«Quando a questo si aggiunge il razzismo – scrive Johnson – diventa qualcosa di quasi impossibile». Ma di questo incrocio tra razzismo e clima non si parla abbastanza: gli afroamericani impegnati a lavorare per il clima devono vivere in un’America «brutalizzata dalle istituzioni dello Stato».

 

Inquinamento nel fiume Yellowstone in Montana, foto Ap

 

La percezione che alcune persone di colore hanno avuto crescendo negli Stati Uniti è che l’ambientalismo fosse qualcosa «per i bianchi».

Prima del suo coinvolgimento nel Sunrise Movement, il movimento di lotta contro la crisi climatica che negli Stati Uniti si batte per il Green New Deal, Mattias Lehman, direttore digitale di Sunrise e attivista di Black Lives Matter, non si identificava con il movimento per il clima.

«Ho sempre visto il movimento per il clima come troppo bianco, troppo borghese, e spesso più interessato agli alberi e agli orsi polari che agli effetti distruttivi e sproporzionati del cambiamento climatico sulle comunità nere e di colore di tutto il mondo», scrive Lehman. L’intersezionalità di clima e giustizia sociale del Green New Deal è ciò che ha portato Lehman al Sunrise Movement ed è ciò che ha portato così tante persone di colore ad unirsi alle popolazioni indigene nella lotta contro la devastazione ambientale. «Per noi persone di colore, la lotta contro il cambiamento climatico esiste accanto alla lotta contro la supremazia bianca e il colonialismo», dichiara Lehman.

Ai bianchi non basta dichiararsi non razzisti, bisogna essere antirazzisti e agire di conseguenza. «Lo dico ai bianchi che si preoccupano di mantenere un pianeta abitabile, ho bisogno che diventiate attivamente antirazzisti – scrive Johnson – ho bisogno che comprendiate che la nostra crisi di disuguaglianza razziale si intreccia con la nostra crisi climatica. Se non lavoriamo su entrambi i fronti, non avremo successo in nessuna delle due cose. Ho bisogno che vi facciate avanti. Per favore. Perché sono esausta».

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