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La tentazione del conflitto globale

La tentazione del conflitto globale

Scenari Le uccisioni di dirigenti politici e militari di Hebzollah e dell’Iran fuori dai confini israeliani, l’invasione del Libano, e le minacce di un attacco aereo sul territorio iraniano, sono tutte iniziative che sembrano concepite per innescare un conflitto su più vasta scala

Pubblicato circa 4 ore faEdizione del 12 ottobre 2024

Un secondo attacco da parte dall’esercito israeliano alle postazioni Unifil in Libano, a qualche ora dal primo, dissolve qualsiasi dubbio. Non siamo di fronte a errori, o eccessi, di chi dirige il fuoco sul campo, ma a una decisione politica. Non è possibile che la scelta di colpire nuovamente le forze di interposizione Onu sia stata presa da un comandante militare, per quanto di alto grado. Cose del genere si fanno se c’è una copertura politica al massimo livello.

Ancora una volta Netanyahu e il suo governo hanno deciso di far seguire alle parole gli atti. Lo scopo, chiaro, è intimidire i paesi che prendono parte alla missione Unifil per spingerli a ritirarsi. Non perché i militari presenti in Libano abbiano alcuna possibilità di interporsi tra i combattenti, ma per liberarsi di testimoni scomodi (come spiegare altrimenti i colpi alle telecamere?).

Al punto cui siamo arrivati sembra inutile ricordare che, ancora una volta, siamo di fronte a una violazione del diritto internazionale da parte di Israele. Tuttavia, è doveroso farlo, perché una sequenza così impressionante di violazione delle regole, e lo scherno per chi cerca di farle rispettare, non si spiega, a un anno di distanza dal 7 ottobre, con la reazione al massacro compiuto da Hamas, e neppure soltanto col desiderio di vendetta (che pure è forte, e purtroppo ha avuto il sopravvento nella società israeliana, dove le voci ragionevoli sono state messe ai margini).

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Le uccisioni di dirigenti politici e militari di Hebzollah e dell’Iran fuori dai confini israeliani, l’invasione del Libano, e le minacce di un attacco aereo sul territorio iraniano, sono tutte iniziative che sembrano concepite per innescare un conflitto su più vasta scala, che non potrebbe che coinvolgere anche gli Stati uniti, e forse, sia pure in un ruolo secondario, altri paesi occidentali. Molte voci dell’opposizione israeliana, l’abbiamo letto diverse volte su Haaretz, ci dicono che la continuazione e l’espansione del conflitto in medio oriente vanno a vantaggio di Netanyahu, che spera di consolidare una posizione politica che all’indomani del 7 ottobre appariva indebolita (sappiamo dai sondaggi che i suoi consensi sono cresciuti) e anche di rimandare la resa dei conti per gli scandali che lo hanno coinvolto.

Per quanto queste ipotesi siano sensate, e probabilmente fondate, esse non sono però sufficienti per spiegare gli eventi di questi giorni, e l’atteggiamento di disprezzo per le regole del diritto internazionale che è evidente da tempo. Per quanto formidabile sul piano militare, Israele rimane una potenza regionale, che non potrebbe perseguire le proprie politiche senza il sostegno economico, il supporto strategico e la copertura degli Usa e dei loro principali alleati. Le pantomime cui assistiamo da mesi durante le conferenze stampa alla Casa Bianca, e le dichiarazioni di Biden, di Kamala Harris, e di buona parte dei responsabili della politica estera statunitense spingono a chiedersi se non ci sia una scelta di fondo nel lasciare mano libera a Netanyahu. Se la prova di forza, che non è solo militare, ma si gioca anche sul piano delle politiche interne, e quindi dell’opinione pubblica, non sia frutto di una decisione presa a Washington.

A rafforzare questo dubbio sono gli elementi dello scenario internazionale. L’indebolimento della posizione egemonica globale che gli Stati uniti hanno avuto dopo la fine della guerra fredda, che dipende sia da fattori economici (la competizione con la Cina) sia sociali e culturali (il modello di capitalismo sregolato e dominato dal potere economico non è più così attraente per chi ne paga i costi senza quasi avere accesso ai benefici, distribuiti in modo diseguale) ha alimentato negli ultimi anni un clima di incertezza, di paura per il futuro, che è cresciuto ulteriormente in seguito all’aggressività della Russia. La tentazione che sembra farsi strada è quella di far precipitare un conflitto su scala globale quando si è ancora in grado di sfruttare una posizione dominante sul piano militare. Sperando che questo sia un deterrente sufficiente per la Cina, e provochi un ridimensionamento dei suoi possibili alleati in un eventuale conflitto a venire.

Diversi riflessi condizionati (quello della strategia del contenimento, e della teoria del domino) sembrano aver preso il posto delle certezze legate alla tesi della fine della storia, che era stata interpretata come la sanzione di una posizione di preminenza destinata a durare a lungo. Che si accetti, per mettere in atto questa nuova dottrina, il rischio di erodere e infine smantellare l’idea di un ordine internazionale basato sulle regole è un segnale preoccupante. La forza, e l’arroganza che essa alimenta, sono in realtà sintomi di una profonda debolezza. L’umanità si trova di nuovo a fare i conti con tempi bui, e il prezzo che pagheremo potrebbe essere altissimo.

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