La strategia di Noè. Come adattarsi all’innalzamento del livello del mare
Mille miliardi fanno un trilione, e forse ce ne vorranno 16 di trilioni di euro per difendere le coste del mondo dall’innalzamento del livello del mare da qui al 2100. Il fatto che pagheremo a rate e che saremo in 11 miliardi a fare la colletta ci fa dormire sogni tranquilli, ma il sogno potrebbe trasformarsi in un incubo e forse, invece che andare a letto, sarebbe meglio rimboccarsi le maniche.
La stima è molto attendibile, e in ogni caso è quanto di meglio abbiamo oggi, essendo stata fatta dai massimi esperti del settore per conto della Banca Mondiale. Si basa su diversi scenari d’innalzamento del livello del mare dovuto al riscaldamento globale, formulati dall’Intergovenmental Pannel on Climate Change (IPCC) delle Nazioni Unite, sovrapposti ad un modello digitale della costa con quota del terreno e considerando un centinaio di parametri, dalla densità di popolazione all’uso del suolo, dal valore delle strutture antropiche al costo della costruzione delle difese, nonché di quello della loro manutenzione e adeguamento al progressivo innalzamento del mare.
Dall’analisi costi / benefici viene fuori che sarà economicamente conveniente difendere solo un terzo delle coste del mondo. Ovviamente la scelta ricadrà sulle megalopoli costiere, sui poli industriali e sui grandi delta fluviali, dove vive una quota significativa della popolazione mondiale e dove, anche un piccolo innalzamento del livello del mare, comporterebbe la perdita di estese superfici agricole.
Molti degli 11 miliardi di potenziali ‘finanziatori’ probabilmente saranno irreperibili quando l’esattore batterà alla loro porta, e saranno quelli che vivevano lungo quei tratti di costa per i quali i modelli indicano che il rapporto costi / benefici della difesa è svantaggioso. Anche se questo si riferisce a circa due terzi delle coste mondiali, non avremo 7 miliardi di no-pay, perché in queste fasce non vi sarà una popolazione molto densa e con beni esposti di grande valore. Sono le zone in cui si dovrebbe procedere con un arretramento strategico, che, sul lungo periodo, costerebbe meno rispetto alla difesa, ma che certamente avrà costi economici, sociali e, di conseguenza politici, importanti e darà luogo a spostamenti delle popolazioni non facilmente gestibili.
Questa parte dei rifugiati climatici costituisce una bomba innescata e che pochi vogliono vedere. È tutto facile fino a che si parla di pochi abitanti di piccole isole coralline dell’Oceano Pacifico che stanno per essere sommersa dal mare; ma che accadrà quando ad arretrare saranno i milioni di individui dediti all’agricoltura in territori spesso già ora più bassi del livello del mare e che vivono in paesi che non avranno mai le risorse per fare fronte al mare che avanza? E a questi si uniranno tutti quelli che non dall’acqua verranno scacciati, ma dalla sua mancanza, anche questa determinata dalle variazioni climatiche in atto.
Le società che decideranno di proteggere ad oltranza i territori costieri si dovranno assumere un impegno di lunghissimo (forse eterno!) termine e dovranno poter disporre di risorse adeguate. Intraprendere questa strada, senza la garanzia che queste risorse saranno disponibili, darà agli abitanti un falso senso di sicurezza, che potrebbe portare a maggiori disastri costieri. Basti pensare che per tutti gli scenari analizzati, la spesa maggiore da qui al 2100 non sarà per la costruzione di nuove difese, bensì la manutenzione di quelle già realizzate o che si costruiranno nei prossimi decenni. Se si sa che questo impegno non potrà essere mantenuto, meglio sarebbe decidere subito per l’arretramento strategico, seguendo l’esempio di Noè, che, divinamente consigliato, non fece resistenza al mare che avanzava.
Questa è generalmente considerata come la migliore strategia di adattamento quando l’analisi costi / benefici considera anche le generazioni future, e in molti paesi si stanno delimitando le fasce di rispetto in cui non solo è vietato costruire, ma anche ricostruire edifici e strutture danneggiate, arrivando fino alla loro delocalizzazione preventiva. Su tali zone di set back si basano, ad esempio, i piani di adattamento all’innalzamento del livello del mare di Australia, Nuova Zelanda, Paesi Bassi e Cuba.
In diversi paesi il governo centrale ha formulato linee guida per aiutare le comunità locali a produrre piani di gestione basati su solidi dati scientifici, come ad esempio ha fatto il Ministero dell’Ambiente della Nuova Zelanda (2017) e la Commissione Costiera della California (2018), ma in Italia non abbiamo niente del genere.
In Croazia, con la restrizione edilizia nelle zone non ancora urbanizzate, i danni economici delle inondazioni costiere potrebbero essere ridotti fino al 39% e, se si includerà l’arretramento gestito, la riduzione potrebbe raggiungere il 93%.
A Varadero (Cuba), il ritiro degli hotel dietro le dune ha mostrato i suoi benefici quando, nel 2017, l’uragano Irma ha colpito la costa: un gruppo multidisciplinare di esperti della Delegazione di Scienza, Tecnologia e Ambiente (CITMA) ha certificato che nei settori di litorale in cui era già stato completato il riallineamento non si sono prodotte erosioni permanenti della spiaggia e danni alle strutture, mentre si erano verificati forti impatti nei settori non ancora modificati.
Tuttavia, sembrerebbe che le opinioni delle parti interessate (normali cittadini e investitori) siano più negative sui risultati dell’arretramento strategico come metodo di gestione del rischio di alluvione rispetto a quelle di ricercatori, consulenti e professionisti.
Ciò crea un divario tra quello che i responsabili della gestione del territorio dovrebbero decidere e quanto le parti interessate sono disposte ad accettare, come dimostrano i conflitti innescati dall’istituzione di una linea di set back nella città di Cape Town o l’accesa discussione in atto a Fairbourne (Galles) fra chi vuole arretrare e chi preferisce morire, magari annegato, in casa propria.
Ed è questo il problema principale per chi deve assumere oggi decisioni che potrebbero dimostrarsi vincenti solo fra alcune decine di anni: non troverebbe il consenso della gran parte dei cittadini. I tempi di pianificazione sono dettati dai ritmi elettorali, non da una visione del futuro: ecco che una bella scogliera porta più voti della demolizione di un edificio sulla spiaggia (magari abusivo) o dello spostamento all’interno di un lungomare attaccato dalle onde.
Buona parte di coloro che vivono lungo le coste non accetteranno di buon grado di arretrare e si comincia già a pensare che, oltre alla condivisione dei dati e dei possibili scenari futuri, nonché di un coinvolgimento diretto dei cittadini nelle valutazioni, sarà necessario operare in quello che già viene definito ‘stato di guerra’. Quanto si sta facendo contro il COVID-19 costituisce forse il migliore allenamento possibile per la prossima competizione planetaria.
A fianco del 68% delle coste del mondo dove si stima che l’arretramento abbia il miglior rapporto costi / benefici (Banca Mondiale) vi sono altri siti nei quali le strategie di difesa o di adattamento saranno inevitabili.
È il caso delle grandi città costiere, dove lo spostamento degli edifici è pressoché impossibile, tanto che sono stati realizzati o sono in corso diversi progetti di mitigazione delle inondazioni (es. Venezia, Londra, Amburgo, Boston, Hong Kong); generalmente basati su barriere mobili, dune artificiali, elevazione del terreno, mentre le aree edificate vengono racchiuse da argini che separano nettamente il mare dalla terraferma. L’efficacia di queste soluzioni è stata valutata con modelli numerici, ad esempio a Boston, dove il National Institute of Building Sciences stima che ogni dollaro di contributi federali speso per la mitigazione farà risparmiare sei in costi di ripristino dopo un evento estremo.
Questa soluzione non è però adatta alle località costiere che non possono rinunciare alla spiaggia, su cui si basa gran parte della propria economia, come a Rimini, emblema dell’urbanizzazione costiera lineare basata sull’offerta 3S (Sea, Sun, Sand), tanto che ‘ riminizzazione’ è un termine entrato nella letteratura internazionale per descrivere un tale sviluppo.
Questo territorio è esposto a inondazioni da terra e da mare, e per aumentare la resilienza urbana ai cambiamenti climatici, con anche benefici ambientali, sociali ed economici, è in fase di realizzazione il Parco del Mare, che ha già visto la creazione di bacini, anche sotterranei, di contenimento per l’acqua piovana e quella proveniente dalla rete fluviale, l’elevazione della passeggiata per conferirle la funzione aggiuntiva di diga arretrata e la creazione di un’ampia area pedonale con verde attrezzato.
L’operazione dovrebbe però completarsi con lo spostamento delle strutture turistiche (locali balneari, bar e ristoranti) dietro al nuovo lungomare, ampliando in tal modo la spiaggia che potrebbe così dissipare meglio l’energia del moto ondoso durante gli eventi estremi.
Il mantenimento della spiaggia come risorsa ricreativa, pur garantendo ai residenti un livello di rischio di inondazione socialmente ed economicamente accettabile, è ritenuto indispensabile anche in studi su aree assai lontane da Rimini, ma per certi aspetti comparabili, come ad esempio sulla Gold Coast dell’Australia.
Se la spiaggia viene considerata come un elemento indispensabile in un approccio pianificato nella risposta alle variazioni climatiche, si rende necessario un suo ripascimento periodico su di una determinata scala temporale per mantenerne il profilo in equilibrio con il futuro livello del mare. È per questo che si dovrebbero valutare le sorgenti di sabbia disponibili, e il costo di ripascimento dovrebbe essere considerato nel bilancio futuro dell’amministrazione responsabile della gestione della costa. Ciò si colloca però in un contesto internazionale fortemente competitivo, in particolare se la quota globale di costa erodibile che si prevede di alimentare artificialmente aumenterà da circa il 3% del 2000 al 18-33% nel 2100 come suggerito in alcuni studi.
Dal 2000, i 432 chilometri della costa olandese sono alimentati con 12 milioni di metri cubi di sabbia prelevata in mare ogni anno, ovvero con 28 metri cubi di sabbia per metro lineare di costa: quanti paesi hanno una tale riserva di sedimenti?
In Italia sono circa 22 i milioni di metri cubi di sabbia prelevata dai fondali marini dal 1994 ad oggi, a cui si deve sommare quanto proveniente dalle cave presenti nelle pianure alluvionali o prodotto per frantumazione di rocce. E, solo considerando i tratti in erosione, noi dobbiamo coprire 1.700 km di spiagge.
Sui fondali che orlano la nostra penisola le aree nelle quali si trova sabbia idonea al ripascimento dei litorali sono molto limitate, e la tutela a cui deve essere soggetto il Mediterraneo è assai superiore a quella richiesta nel Mare del Nord.
Se volessimo mantenere il profilo naturale delle spiagge con un innalzamento del livello del mare di un metro sui quasi 4.000 km di coste basse italiane, avremmo bisogno di oltre tre miliardi di metri cubi di sedimenti, e al costo attuale del dragaggio e del refluimento (circa 15 euro a metro cubo) si arriva 45 miliardi di euro. Siccome sarà difficile trovare tutta questa sabbia in mare, potremmo continuare a fare buche nelle pianure alluvionali per estrarre sabbia e ghiaia.
L’Italia assomiglierebbe alla Finlandia, il paese dai mille e mille laghi, e il costo sarebbe tre o quattro volte maggiore. L’unione di difese costiere con ripascimenti artificiali, oltre che stravolgere il paesaggio e incidere sulla qualità dell’offerta turistica, avrebbe costi non molto diversi. Ma questa sarebbe solo una minima parte dell’impegno economico richiesto dalla strategia di difesa ad oltranza, perché il mare aggirerebbe le dighe, risalirebbe lungo le aste fluviali e i canali di bonifica, dovremmo rialzare ponti e tutto quanto si raccorda con essi, tutti gli scarichi a mare andrebbero adeguati ad un livello più alto, il livello delle falde s’innalzerebbe sopra al piano campagna, e sarebbe una falda di acqua salata. E l’elenco non finisce qui!
Ovviamente ci sarebbe da redigere una lista altrettanto lunga di quanto ci sarebbe da fare per arretrare e di quanto costerebbe tale strategia, come è stato fatto in altri Paesi. Fino a quando non potremo confrontare i due elenchi non sarà possibile decidere che strada intraprendere. Ma forse anche solo la lista spaventa chi poi dovrebbe decidere!
Una cosa è certa: a Noè la strategia da adottare per sopravvivere all’innalzamento del livello del mare fu dettata da Chi non aveva paura di non essere rieletto!
*Membro della Task Force Natura e Lavoro
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