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«La strada per Avdiivka, disseminata dei nostri corpi»

Bandiera russa per la strade di AvdiivkaBandiera russa per la strade di Avdiivka

Crisi Ucraina La tenaglia di Mosca si chiude sulla città. Ma non arriva l'ordine di ritirata. Il timore è che finisca come a Bakhmut, quando Syrsky ordinò: «Fino all’ultimo uomo»

Pubblicato 8 mesi faEdizione del 17 febbraio 2024

Un’altra fabbrica, come a Mariupol e a Bakhmut, un’altra macelleria umana. Stavolta si tratta dell’impianto chimico e di produzione di coke più grande d’Europa. Un gigante che ha sede ad Avdiivka, la cittadina per la quale i russi in avanzata e gli ucraini arroccati si massacrano da mesi.

IERI MOSCA ha annunciato di aver tagliato alla controparte l’ultima via di rifornimento alle prime linee. Kiev ha confermato, precisando che però i soldati erano preparati e che «vie secondarie» erano già pronte. Il giorno prima la 3° brigata d’assalto ucraina era stata inviata a dar manforte ai connazionali ormai esausti. Sembra che qualche risultato, nel quadrante nordovest della città, le truppe fresche l’abbiano ottenuto; ma non si tratta di una vittoria, bensì di evitare l’accerchiamento. Che appare ormai inevitabile: intorno ad Avdiivka si apre una sacca che è pronta a chiudersi anche a ovest per inghiottire le posizioni ucraine nell’assedio totale. Ieri i soldati di Zelensky si sono ritirati anche dalla roccaforte dello «Zenit» nel sud della città. Sui canali ucraini è iniziato a circolare questo messaggio: «tutto è arrivato a un punto critico. La vita, i rifornimenti, la fabbrica e quelle che chiamavamo posizioni ora sono in fiamme. Come in politica, nessuno ama le decisioni impopolari. Il ritiro del personale combattente? No. Al contrario: una difesa eroica che a qualcuno potrebbe anche far ottenere una promozione». Sono parole di un soldato della 110° brigata (1°battaglione, II unità) che da qualche giorno scrive brevi post sui social network a proposito della situazione in città.

«CI SONO STATI due tentativi di uscita. La prima notte, il 14 febbraio, è partita la prima decina. Che ha dovuto ingaggiare un combattimento a fuoco. L’artiglieria nemica era già puntata; solo 3 feriti sono riusciti a tornare indietro. E se 2 sono riusciti a farlo al buio, l’evacuazione dell’ultimo è avvenuta al mattino. Io e altri 3 volontari lo abbiamo prelevato. Ma il giorno non è il momento per spostarsi. Come risultato inevitabile, da uno ferito, siamo diventati in 4. Ero molto fortunato a non aver perso la mobilità, ma ad aver ricevuto solo un ‘sorriso’ alla Joker» continua il militare, che ha pubblicato una sua foto in cui un’impressionante cicatrice curva gli solca il viso dal labbro superiore all’orecchio. Successivamente è stata organizzata una nuova evacuazione «o ce la fai, o sei perduto. Si formavano nuovi gruppi ma non mi interessava dato che avevano detto che per i feriti sarebbe venuta una ‘scatola’. Mi sono rilassato». Il soldato probabilmente allude a un mezzo corazzato per il recupero dei feriti. «I gruppi partivano uno dopo l’altro. Fuori, la visibilità era zero. Era pura sopravvivenza. Un chilometro attraverso il campo: un mucchio di gattini ciechi guidati da un drone. Ma ancora artiglieria nemica. Alla fine la strada per Avdiivka era disseminata dei nostri corpi». Il soldato a quel punto ha preferito non aspettare l’ordine: «ho preso una squadra e mi sono avventurato nell’ignoto. Ci hanno colpito. Ho perso il gruppo. Ma, alla fine, sono arrivato al punto. I primi gruppi sono morti incontrando il nemico e i successivi si sono dispersi. Questo ha permesso a quelli fortunati di uscire». I mezzi di evacuazione non sono arrivati e anche l’ultimo gruppo ha dovuto lasciare il bunker da solo. Ma, se possibile, c’è un fatto peggiore. «Questo dialogo via radio ci ha ferito nel profondo» racconta citando lo scambio con un graduato, probabilmente addetto alla ritirata:«’quindi, non ci sarà l’evacuazione?’; comandante: ‘no, non ci sarà, lasciate il 300 e bruciate tutto». Il «cargo 300» o semplicemente «300» nel gergo militare russo e post-sovietico indica i feriti che necessitano di trasporto. «Non sapeva di parlare con un ferito e con me ce n’erano almeno altri sei».

«TUTTO CIÒ rimarrà sempre con noi» conclude il soldato, «muoiono sempre i più coraggiosi». Il che si può interpretare a rovescio: dove sono gli ufficiali, dove i generali che stanno ordinando la resistenza a tutti i costi? Ieri su internet i russi hanno pubblicato le foto delle bandiere dell’esercito issate nelle aree da loro controllate ad Avdiivka. Per quanto ancora, si chiedono i soldati ucraini, dovremo morire qui prima che diano l’ordine di ritirata? Per Oleksandr Syrskyi, il nuovo Comandante in capo delle forze armate ucraine che ha sostituito Zaluzhny la prima prova è già quella definitiva. Il soprannome che gli hanno affibbiato dopo la battaglia di Bakhmut (in cui Syrskyi ordinò di combattere «fino all’ultimo uomo») è “il macellaio”. Ora il timore per chi è al fronte è proprio di finire come a Bakhmut: morire a migliaia prima che qualcuno, a Kiev, possa dire che per il momento basta così. Per Syrskyi è a rischio il rapporto con l’esercito, per i soldati la vita. Ma in guerra quest’ultima vale meno di niente.

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