Entrando nel Complesso dell’Ospedaletto a Venezia, a incuriosire il visitatore sono i piatti di terracotta sorretti da strutture di ferro. Prodotti da artigiani in una fabbrica a un paio d’ore da Dubai, i piatti accolgono la creazione congiunta di tre artisti iraniani esuli negli Emirati. Su ogni piatto, ritagli di giornale e disegni. Ogni opera è un atto collettivo, mescola arte e attualità. Ogni struttura ha un suo tema: il ritiro dall’Afghanistan della coalizione guidata dagli americani, il conflitto israelo-palestinese, il covid, il disordine del nostro mondo. Sono alcune delle tematiche del collettivo di Ramin Haerizadeh, Rokni Haerizadeh e Hesam Rahmanian in collaborazione con il fabbro Mohammed Rahis Mollah, originario del Bangladesh e operativo anche lui a Dubai.

È lì, negli Emirati, che gli artisti di Teheran hanno trovato scampo dopo il giro di vite della Repubblica islamica. Nel 2018, raccontano, avevano «cercato di tornare in Iran con le loro opere, partecipando alla Art Fair di Teheran attraverso la galleria d’arte che le espone a Parigi, ma non giunsero le autorizzazioni». Quando il presidente Ahmadinejad fu confermato per un secondo mandato, nel 2009, «ci si rese conto che l’arte esercita un potere e che le autorità possono essere prese di mira anche attraverso le arti visive». Soprattutto in questo caso, perché le opere del collettivo parlano in primis agli iraniani perché riprendono le poesie e la prosa in lingua persiana.
Nel loro repertorio aveva trovato spazio il poema Esmail del dissidente Reza Baraheni (1935 -2022), originario della regione iraniana dell’Azerbaigian ed esule in Canada. Scritto negli anni 80, è il ricordo del collega Esmail Shahroudi traumatizzato dalla rivoluzione del 1979 e ricoverato nel manicomio Mehregan di Teheran, dove molti intellettuali sono stati rinchiusi. Per il collettivo utilizzare il testo Esmail, «in cui sono evidenti i riferimenti alla guerra scatenata nel 1980 da Saddam, è un tentativo di tenere viva la memoria». Un altro esempio di letteratura utilizzata dal collettivo è Shavoshi del poeta Mehdi Akhavan-e Saless (1929-1990), laddove «shavoshi è il suono che ti induce ad affrontare il pellegrinaggio, la migrazione».
Esposto nell’ambito della Biennale fino al 27 novembre, il progetto di Ogr Torino (un hub internazionale dedicato all’arte e alla cultura contemporanea, all’innovazione e all’accelerazione d’impresa) è curato da Samuele Piazza con il sostegno di Fondazione Crt e con il contributo di Galerie In Situ-fabienne leclerc, Grand Paris.
La mostra si intitola Alluvium, un nome che rimanda all’argilla, alla ghiaia, al limo depositati dall’acqua corrente. Richiama la materialità dei dipinti presentati in mostra e del loro supporto fisico in terracotta e metaforicamente i resti di un flusso più astratto: i detriti lasciati dal flusso di notizie, immagini culturali e storia che gli artisti setacciano e scansionano e da cui pescano materiali sedimentati, raccolti per guadagnare nuova vita, in un atto di resistenza e creazione di una contro narrazione.