Il primo bollettino del comando supremo dell’Armata Rossa sentenziava: “All’alba del 22 giugno 1941, truppe regolari dell’esercito tedesco hanno attaccato le nostre unità di confine su un fronte che si estende dal mar Baltico al Mar Nero”. Meridiano, terre e toponimi di recente divenuti familiari. Attacco “a sorpresa” fu detto. Di uno dei protagonisti dice Grossmann: “Avrebbe incontrato spesso sui giornali l’espressione ‘attacco a sorpresa’; ma chi non aveva assistito di persona ai primi minuti di guerra poteva davvero immaginare tutta la forza di quelle parole?”.

I raffronti con la guerra di oggi vengono naturali. I tedeschi avevano cominciato col bombardare gli aeroporti e le città: “Tre degli aerei sulla pista erano in fiamme, e c’era gente che scappava, si alzava e ricominciava a scappare…”. Durante i bombardamenti sulle città, i civili si rifugiavano nella metropolitana, la situazione per loro fu subito drammatica: “Qua, all’estrema sinistra, hanno già sfondato coi blindati… Ma i nostri non si ritirano, combattono fino all’ultimo. Io però ho con me donne, bambini, asili: come li faccio sfollare? Per dove li faccio passare? Li hanno caricati sui camion e portati via”. Déjà vu potremmo dire con gli occhi di oggi.

La vita era sconvolta. La pace, il passato anche più recente, fatto di quotidianità e routine, aveva preso “a sembrare un sogno, mentre la realtà vera, autentica era fatta di fumo, fuoco, boati”. Ma anche la conclusione che Grossmann trae dai primi giorni dell’aggressione nazista è significativa: “La verità più semplice di quelle prime ore di guerra era che utili per la Russia sovietica e nocivi per il nemico furono coloro che fecero il proprio dovere, che ebbero la forza, il coraggio, la fiducia e la calma per battersi contro un avversario più forte; coloro che quella forza la trovarono nel cuore, nell’esperienza, nella volontà”. Necessità morale e strategica della resistenza.

Nella Russia di ieri come nell’Ucraina di oggi (aggredita come l’Urss di ieri…) strategicamente decisivi sono i fiumi. Un giovane ufficiale a fronte delle truppe tedesche ammassate sull’altra riva esclama: “Si stanno preparando a passare il fiume e concentrano gli uomini lungo la riva: io ho aperto il fuoco e continuo a sparargli contro con tutte le armi che ho”. Alla domanda: “Munizioni ne ha?” risponde: “Ce le faremo bastare e aggiunge: il mio marconista ha captato che Finlandia, Romania e Italia sono tutte contro di noi”. Non fosse ieri, sembrerebbe oggi. Solo che ieri i russi difendevano, oggi offendono.

Ma almeno un altro elemento è comune alle due vicende. Grossman ricorda come i sovietici all’indomani dell’invasione dovettero cambiare completamente strategia militare, la difesa in linea si era rivelata da subito impossibile, i tedeschi avevano travolto le posizioni a ridosso del confine. Di fronte alla possenza dell’attacco “le fortificazioni difensive diventavano, per quanto robuste, atolli in mezzo alla piena. Nella steppa non servivano a nulla nemmeno i fossati anticarro. Serviva mobilità! Serviva la guerra di manovra!”.

Che non significa senz’altro guerra di movimento, perché un attacco frontale ai tedeschi sarebbe stato suicida, ma rispondere all’offensiva con la velocità di piccoli gruppi “ad altissima mobilità”, con “concentrazioni fulminee di uomini che consentissero non solo di fermare l’avanzata del nemico, ma anche di contrattaccarlo sui fianchi”. Su questi moduli gli ucraini ancor oggi fondano la loro resistenza. La guerra di posizione doveva servire solo ad immobilizzare il nemico in lunghe battaglie di attrito, impedendogli di soccorrere le linee di avanzata colpite sui lati. Stalingrado questo fu. Ed oggi è Mariupol (che distrae i russi dalla seconda ondata).

Dove Grossman scrive che “proprio la difesa strenua di Stalingrado avrebbe preceduto l’attacco decisivo delle truppe mobili”, ci dice che posizione e movimento sono elementi indisgiungibili della “difesa mobile”. Solo insieme portarono al fallimento dell’aggressione nazifascista. La conclusione strategica della grande epopea di Grossman è se possibile ancora più sconcertante. Ancora fiumi fatali: “Dal Donec al Don… Nessuno può negarlo: la guerra di oggi è guerra di movimento”. Il Donec è il fiume del Donbass, affluente del Don, lì allora si decise e oggi si deciderà. Anche se, ripete saggiamente Grossman, l’attacco, il movimento non deve mai essere sconsiderato, ma ponderato con la difesa, con il controllo delle possibilità, degli effettivi, dei materiali. Del resto proprio Stalingrado fu “teatro di una difesa di posizione senza eguali possibili nella storia del mondo, dall’assedio di Troia alla battaglia delle Termopili”.

Appunto posizione e movimento, attacco e difesa, intraprendenza e saggezza. Una lezione di strategia, che aiuta a capire la sconfitta decisiva del nazifascismo, come gli sviluppi della guerra europea in corso. Ma anche una lezione di intelligenza politica, che soprattutto a sinistra dovrebbe trovare orecchi (e cervelli) attenti. La vicenda del giovane ufficiale che il primo giorno si era opposto agli aggressori, eroicamente ma senza speranza, Grossman la erge a monito: “Era poi morto in autunno, Samsonov, sul Dnepr”. Fiume che bagna Russia, Bielorussia, Ucraina. Praticamente la faglia Mar Baltico-Mar Nero…