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La spirale prezzi-profitti?

Nuova Finanza Pubblica

Nuova Finanza pubblica La rubrica settimanale a cura di Nuova Finanza pubblica

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 10 settembre 2022

Il titolo è volutamente provocatorio, ma non si allontana poi molto dallo scenario che andremo a descrivere.

L’inflazione costituisce un dato strutturale e non semplicemente l’effetto dello scontro militare e geopolitico in corso. La tendenza si manifestò a partire dal secondo semestre del 2020, quando venne allentato il blocco causato dalla pandemia ed emerse con forza una sfasatura tra domanda e offerta.

Fu il detonatore di una dinamica ancora più profonda, l’inflazione era l’effetto più appariscente di una progressiva crisi della globalizzazione.

Il protezionismo americano, nato come risposta difensiva alla crisi del 2007-09 e all’espansione della potenza cinese, ha spinto il mondo verso una deglobalizzazione selettiva, alimentata dal Covid e consacrata dalla guerra in Ucraina.

Deglobalizzare, accorciare le catene del valore, dare vita a nuove alleanze su base macroregionale, creare nuove filiere per gli approvvigionamenti di materie prime scarse, finisce per costare di più.

L’aumento dei prezzi, dunque, ha delle ragioni di ordine strutturale all’economia odierna. Di fronte a una inflazione che potrebbe in autunno crescere con percentuali a due cifre, molti temono si inneschi una spirale prezzi-salari. Una dinamica che in passato ha sollevato grandi problemi e grandi dibattiti, ma allo stesso tempo ha consentito anche di proteggere il potere d’acquisto dei salari.

Oggi la temuta spirale non sembra in via di affermazione. Al contrario l’inflazione mette all’ordine del giorno il netto peggioramento delle condizioni di vita di decine di milioni lavoratrici e lavoratori. L’aumento dei prezzi dell’Unione europea nel secondo trimestre del 2022 rispetto a quello del 2021 è stato del 9,8%, contemporaneamente abbiamo avuto una crescita media dei dividendi delle imprese pari al 28,7% contro un aumento dei salari pari al 3,8%.

In questo arco di tempo in Italia i salari sono cresciuti in linea con gli andamenti continentali. Mediamente le imprese sembrano avvantaggiarsi della crescita dei prezzi, che diventa un’occasione per aumentare i margini di profitto, mentre il mondo del lavoro mediamente perde il 6% di potere di acquisto.

In Italia questa dinamica è ancora più marcata per via delle condizioni con cui il nostro paese è giunto al 2022.

In un report del Forum Ambrosetti si afferma che nel 2019 i costi di produzione riconducibili ai salari sono pari al 18,6% in Italia, mentre in Spagna raggiungono il 24,9%, in Germania il 25,7% e in Francia il 26,8%.

L’Ocse poi ci dice che la dinamica salariale nel nostro paese è ferma da circa 30 anni, con un potere d’acquisto registrato in aumento solo del 3,4%, mettendoci al penultimo posto dei paesi aderenti all’Ocse stesso, dopo il Messico.

Ad agosto su queste pagine scrivevamo che la deglobalizzazione selettiva in corso paradossalmente potrebbe fornire nuove possibilità di crescita all’economia italiana, in quanto il paese potrebbe tornare a ricoprire un ruolo nell’export dentro catene più corte e sotto l’egemonia degli Stati Uniti.

Va considerato che la decisa inflazione che stiamo registrando è anche il frutto dell’affermarsi di una nuova economia su scala geopolitica, dunque un paese che, seppur a fatica, ha mantenuto un certo apparato industriale e mantiene i salari più bassi dei competitori/alleati, può giocarsi delle carte nel nuovo contesto.

Il prezzo da pagare sarà continuare a mantenere fermi i salari? Una logica ipercompetitiva su scala minore, ma che nel caso italiano non scalfisce il paradigma con cui abbiamo affrontato i tempi d’oro della globalizzazione:bassa produttività, modesto valore aggiunto, competizione sul basso costo del lavoro.

Eppure, sui mass media si parla solo delle difficoltà delle imprese e di nuovi aiuti a pioggia dopo quelli del Covid. Per carità, molte imprese registrano grandi difficoltà, ma le statistiche dicono che mediamente hanno macinato profitti negli ultimi due anni e molte continueranno a farlo. E il mondo del lavoro?

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