Rebecca Solnit, saggista statunitense, ha recentemente pubblicato sul Guardian un articolo contro i «fatalisti climatici». Solnit è una voce rappresentativa di tutti coloro che non negano il disastro climatico, ma confidando sul fatto che tutto si può risolvere se la prendono in ugual misura con i «negazionisti» e i «disfattisti». La loro preoccupazione non è quella di comprendere come è stato raggiunto e superato un limite considerato fino a pochi anni fa «punto di non ritorno». È piuttosto quella di mantenere vivo e ingannevolmente incoraggiante il loro narcisismo della buona volontà che li fa sentire raziocinanti e fiduciosi in mezzo ai disastri, diversi dalla massa degli ansiosi.

Solnit sostiene che per quanto la situazione climatica sia peggiorata, le soluzioni a nostra disposizione sono migliorate e cresce, seppure in modo ancora non soddisfacente, il movimento in difesa del pianeta (ciò è vero, in parte, nei paesi occidentali che rappresentano una parte minoritaria della popolazione mondiale). A sostegno della sua posizione cita Antonio Gramsci e il suo famoso detto «il pessimismo della ragione, l’ottimismo della volontà». Usare la frase di Gramsci come slogan non è cosa buona. Perché si perde di vista che nel discorso fine del pensatore italiano è il pessimismo della ragione a creare le condizioni di un ottimismo della volontà. La volontà è cieca se non ascolta la lettura critica della realtà che le segnala che si è infilata in un vicolo senza via d’uscita.

Coloro che immersi in una prospettiva infausta fanno, nonostante tutto, professione di fede nel destino fausto dell’umanità, sono promotori di una visione del mondo «politically correct», la buona educazione linguistica e comportamentale diventata modo di pensare e canone di vita. Non vogliono imparare dagli errori del passato. Preferiscono rieducare la storia, riscrivendola nel presente. Hanno una fede assoluta (e non del tutto consapevole) nei miracoli della tecnologia e considerano ogni problema dell’umanità come problema tecnico da risolvere scientificamente. Peccato che la tecnica non ha mai risolto alcuno dei conflitti che attraversano la storia umana, spesso li aggrava a partire dalle guerre. Non esistono algoritmi che renderanno il nostro mondo più pacifico, libero e democratico capace di trarre forza costruttiva dai conflitti, piuttosto che lasciarsi andare alla loro deriva distruttiva.

Si continua ostinatamente a confondere il substrato logistico della nostra vita (dove è importante la stabilità e una ragionevole prevedibilità) con i desideri, gli affetti e il pensiero immaginativo che la rendono umana. Per questi ultimi è importante un equilibrio non predefinito tra prevedibilità e imprevedibilità, tra stabilità e destabilizzazione, il contesto in cui si muove, peraltro, anche la ricerca scientifica che è cosa diversa dalle sue applicazioni.

I sostenitori del futuro tecnologico dell’umanità non sanno di cosa parlano, sono affetti da insipienza del pensiero (l’ottundersi della mente a causa della crisi del desiderare, vedere e sentire), indipendentemente dalle loro ottime intenzioni, dalle loro buone conoscenze e dal loro quoziente intellettivo (un inganno diventato misura obiettiva della capacità di pensare, promotore di un pensiero calcolatore e impersonale che non sa nulla del mondo). Sono abbagliati dai numeri e dalle immagini e vivono nella caverna di cui Platone, uscendone, ci ha parlato. Uscire all’aperto li terrorizza e costruiscono paradisi artificiali che creano un oblio continuo della loro condizione umana.

La speranza è l’opposto della consolazione, il vivere ipnotizzati nella caverna. Nasce dalla disperazione creata dalla consapevolezza di essere finiti in una prigione e richiede da noi il coraggio di uscire, sempre più numerosi, dalla claustrofilia a dare testimonianza di un amore per la convivialità umana (la culla della ragionevolezza) che tenacemente resiste.