La situazione oggi è «50 e 50, un po’ noi e un po’ loro»
A un posto di blocco in uscita da Mykolayiv trovo Ilya con un libro in mano. È un ragazzo di 19 anni di bassa statura, con gli occhi azzurri e una barbetta rada scura su un viso da adolescente. Da qualche giorno per uscire dalla città in direzione est i controlli sono più serrati e alla Guardia nazionale si è unita la polizia che scatta foto dei documenti e dei permessi e le invia all’administrazio per un controllo. Nei venti minuti che passano prima che il poliziotto torni con il lasciapassare Ilya racconta un po’ di sé.
È UNO STUDENTE AL PRIMO ANNO di informatica che il 25 febbraio si è arruolato nella Guardia nazionale. Perché? Per difendere il suo Paese, ovviamente. «Sì, ma anche i tuoi amici si sono arruolati?». Risponde di no, che molti sono a casa senza far niente, altri si sono spostati a Odessa o nell’ovest e qualche mosca bianca ha continuato a lavorare. «Allora cosa ti ha spinto a posare i libri e a venire qui?». Ha ricevuto una telefonata, il suo “comandante” gli ha detto «cosa farai? Resterai con il culo sul divano mentre i russi ci invadono o farai il tuo dovere?». Non è chiaro come facesse ad avere un “comandante” prima, visto che studiava, «eri già addestrato?» gli chiedo. «No, in realtà è mio padre che mi ha chiamato, è un ufficiale dell’esercito e già prima della guerra era in stato di allerta».
E quando gli chiedo se la vita del militare è dura risponde con una frase affettata che tradisce la sua giovane età e la voglia di darsi un tono in un contesto, evidente a pochi metri da lui, di uomini che hanno almeno il doppio dei suoi anni e, forse, la metà della sua istruzione. Gli chiedo cosa legge e risponde che è un libro di strategia militare, che è «importante sapere la strategia perché altrimenti il nemico ti coglie di sorpresa». E poi è meglio che avere sempre il cellulare in mano. «Esatto, anche per quello, a volte stai molte ore ad aspettare». «Ma la vita militare non ti pesa, voglio dire, sono ritmi pesanti, no?» insisto. Ma, proprio come la strategia insegna, Ilya continua a dire che non è così male, che ci si abitua in fretta e che «ti lasciano anche 5 ore al giorno per fare ciò che vuoi».
Domando la madre come l’ha presa e la domanda lo infastidisce un po’, come a dire che non si chiedono a un uomo queste cose, «comunque, è la moglie di un ufficiale, era già abituata». «Ma, insomma, non vedi l’ora di tornare alla tua vita normale, di uscire con i tuoi amici o la tua ragazza, di tornare a studiare, di fare qualsiasi cosa che non sia stare qui?». Dice che non lo sa, che al momento è importante che lui sia lì e che, forse, dopo la guerra potrebbe lasciare gli studi e tentare la carriera di ufficiale. Come il padre.
A POCA DISTANZA oggi i russi hanno bombardato pesantemente. I colpi di mortaio sono risuonati per tutto il pomeriggio, abbastanza vicini da farti vibrare lo stomaco. Il vento forte, oltre a mandarti la terra dei campi incolti negli occhi, allontanava anche i boati e spesso capitava che si chiedesse alle persone vicine «hai sentito?» o che loro lo chiedessero a te. Il cielo grigio, coperto da una cappa lattiginosa come in certe giornate d’afa estiva in cui il sole sparisce ma si sente, sembrava addirittura aggravare la situazione in quanto rendeva tutto confuso.
Il pensiero costante, quando si è sulla M14 che da Mykolayiv porta a Kherson, è l’eventualità di un attacco aereo da parte dei droni. A differenza degli aerei non senti il rombo, non li vedi e quando senti un sibilo nell’aria hai meno di dieci secondi per correre più veloce che puoi. Ma, generalmente, nessuno può correre così veloce.
SU QUESTO TRATTO di autostrada i droni sono avvistati tutti i giorni e i militari dei check-point ci dicono sempre la stessa cosa. Alla domanda «oggi com’è la situazione?» rispondono «fifty fifty», 50 e 50, un po’ noi e un po’ loro. «Avanzano?», no. «Voi avete conquistato terreno?», no.
Eppure oggi all’ultimo posto di blocco in uscita da Mykolayiv il soldato ci ha guardato, gli abbiamo ripetuto le solite frasi per rabbonirlo pronti a mostrare i documenti, e lui ha fatto un cenno con la mano verso est per farci proseguire. Non ha voluto controllare i documenti, non gli è interessato il bagagliaio e, azzarderei, neanche che eravamo giornalisti. Volete andare? Andate.
Sembra che i russi abbiano attaccato pesantemente gli avamposti di Posad-Pokrovs’ke, sulla linea di contatto tra i due eserciti, ma al momento non ci sono notizie di nuovi posizionamenti delle truppe di terra. Così come non ci sono notizie di avanzamenti a Mariupol. Ieri il vice primo ministro ucraino, Iryna Vereshchuk ha detto che il governo avrebbe inviato 45 bus verso la città portuale per raccogliere i civili che hanno sofferto alcune delle peggiori privazioni dall’inizio della guerra.
COM’È NOTO, NELLA CITTÀ assediata da quasi tre settimane mancano cibo, acqua e forniture mediche. I civili che sono riusciti ad andarsene, nella maggior parte dei casi lo hanno fatto usando auto private, ma il numero di veicoli utilizzabili rimasti in città è molto basso e il carburante è scarso. Del resto, il carburante scarseggia quasi in tutto il Paese. Nel sud, ad esempio, è molto frequente che ci sia un limite prefissato ai litri che una pompa di benzina eroga a ogni auto: oggi per fare il pieno ci siamo dovuti fermare tre volte.
Sempre ieri mattina la Croce Rossa ha dichiarato: «È disperatamente importante che l’evacuazione di Mariupol sia portata a termine. La vita di decine di migliaia di persone dipende da questo». Tra l’altro, mentre veniva annunciato il nuovo tentativo di evacuazione, è emersa la prova che un magazzino della Croce Rossa in città era stato colpito all’inizio di questo mese durante un intenso bombardamento, benché il simbolo fosse ben distinguibile dal tetto.
Stando sempre al vice-ministro ucraino, i pullman partiti da Zaporizhzhia per evacuare i civili ieri sera erano ancora bloccati fuori da Mariupol perché i soldati di Mosca non gli hanno accordato il permesso di entrare in città.
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