Per quello che, mancando migliori elementi, chiamiamo abitualmente “caso”, il cupo anniversario della guerra in Ucraina ha incrociato un altro avvenimento significativo, ovvero gli ottant’anni dalla nascita di Eduard Limonov, lo scrittore scomparso nel 2020 dopo una lunga malattia. Alla guerra, com’è noto, l’élite putinista dedica da giorni grandi cerimonie in ogni parte del paese. Ma per ricordare Limonov lettori e amici hanno dovuto raggiungere il cimitero Troekurovo, periferia sudovest di Mosca, lo stesso in cui riposa il politico di opposizione Boris Nemtsov, ucciso nel 2015 a colpi di pistola sul ponte che porta al Cremlino.

Esclusi i riconoscimenti ottenuti negli ultimi anni di vita, Limonov non si può considerare in alcun modo un intellettuale organico al potere. Lo dimostrano gli arresti, le condanne e i mesi passati in cella a Lefortovo, il carcere-fortezza che un altro autorevole inquilino, l’autore anti sovietico Andreij Sinijavskij, aveva descritto anni prima come una «enorme e rigonfia cassa toracica del paese». Parecchi tratti del suo pensiero hanno, però, trovato confortevole alloggio nelle vicende della nazione.
«Un anno fa abbiamo deciso di condurre un’operazione militare speciale per proteggere i cittadini delle nostre terre storiche, per garantire la sicurezza del nostro paese e per eliminare la minaccia del regime neonazista che si è instaurato in Ucraina con il colpo di stato del 2014», ha detto il presidente, Vladimir Putin, nel suo ultimo discorso alla nazione, che ha tenuto martedì di fronte a ministri, funzionari dello stato, autorità religiose e generali dell’esercito.

Tutti concetti pericolosamente vicini all’ideologia che Limonov e i suoi accoliti, dal cantante punk Igor Letov allo studioso Alexander Dugin, avevano costruito negli anni Novanta, e che avrebbe formato, poi, la base del movimento nazional-bolscevico, un fenomeno politico minoritario, rimasto a lungo ai limiti estremi della legalità, segnato da una versione allucinata del patriottismo e da istanze apertamente revanchiste.

Dagli scritti di Limonov sembra avere preso gradualmente corpo anche un’idea di contrapposizione fra l’uomo russo e l’occidente che, per la verità, è sempre meno consistente nella vita quotidiana. Quell’atteggiamento aveva spinto l’autore prima a piegarsi, forse in modo provocatorio, sulle teorie di uno pseudo storico come Anatolij Fomenko, che nella sua Nuova cronologia era arrivato a ritenere falsa l’esistenza in un impero romano, e più tardi a sostenere che il futuro sarebbe appartenuto a «talebani, turchi e curdi», e quindi alla «folla selvaggia di individui sospetti che gli europei disdegnano e non capiscono», dato che «l’Europa è già morta, è stanca e profondamente cambiata».

Putin utilizza oramai in modo quasi esclusivo l’espressione “occidente collettivo” quando si riferisce agli Stati uniti e ai loro partner europei, come se questi governi rappresentassero una cosa sola e indistinguibile ai confini della Russia e allo stile di vita del suo popolo. «Le élite occidentali sono diventate un simbolo di bugie totali senza principi», ha ripetuto martedì, nel giorno che la Russia dedica al Difensore della Patria: «Nei lunghi secoli di colonialismo, di diktat ed egemonia, si sono abituati a ottenere tutto quel che volevano. In più, trattano i popoli dei loro paesi con lo stesso disprezzo. Li hanno ingannati cinicamente anche con le favole sulla ricerca della pace e sul rispetto delle risoluzioni Onu sul Donbass». Vent’anni fa, nel suo primo mandato da presidente, Putin si esprimeva in modo completamente diverso. «Dobbiamo respirare nuova aria nei rapporti con le grandi istituzioni europee, mantenendo al tempo stesso tutto quello che di buono siamo riusciti a costruire negli anni passati», aveva detto per esempio nel discorso alla nazione del 2001: «I nostri sforzi per realizzare una partnership con l’Europa saranno sempre più importanti. L’integrazione è uno degli obiettivi della nostra politica estera».

Sul passaggio da un punto all’altro saranno scritti libri per decenni.

Di certo sarebbe fuorviante pensare che Limonov abbia condizionato le scelte politiche della classe dirigente russa, oppure che sia riuscito a influenzare Putin e i suoi consiglieri. È più giusto ritenere che nel suo lungo viaggio lo scandaloso autore di Edichka, il poeta ribelle, il rivoluzionario, l’estremista di destra e di sinistra, abbia compreso fra le infinite pieghe della Russia quella che gli eventi in fin dei conti avrebbero assunto. Non si tratta necessariamente di una buona notizia per i russi e per il resto del mondo.