A differenza dei nomi storici del capitalismo tech americano – General Electric, AT&T o IBM – le aziende leader di oggi, Apple, Alphabet , Amazon e le altre hanno meno impiegati e più monopolio. Alla loro influenza enormemente maggiorata sulla vita quotidiana della collettività, corrisponde inoltre una proporzionale diminuzione della regolamentazione.

Molti giganti della New Economy hanno inoltre in comune una forte avversione ai sindacati. «Non sono anti sindacato», ha affermato pochi giorni fa Howard Schultz, amministratore delegato di Starbucks, «ma loro erano necessari negli anni 40, 50 e 60 quando le aziende abusavano dei lavoratori. Noi mica siamo miniere di carbone, non abusiamo della nostra gente». Secondo Schultz, tornato a guidare l’azienda in quella che considera una crisi esistenziale del capitalismo, non può esservi un ruolo per i sindacati in aziende “progressiste” come la sua. Le sue dichiarazioni sottolineano la singolare capacità di Silicon Valley di mantenere un’alta opinione progressista di se stessa e al contempo promuovere e sfruttare la perpetua precarietà della Gig economy.

Nel gergo di Silicon Valley il disruptor, l’innovatore/disgregatore di vecchi modelli, gode di un’aura eroica. Nel nuovo coraggioso mondo plasmato dai prometeici disgregatori della nuova economia non può quindi esservi posto per antichi anacronismi come l’antagonismo di classe o la contrattazione collettiva.
La cultura aziendale delle aziende tech esprime sempre di più quella iper liberista di Silicon Valley di cui l’attuale prototipo mediatico è Elon Musk, attorno al quale si accentra un culto del visionario capace di rompere gli schemi e generare il futuro per merito e pura forza di volontà. Ma dietro alla facciata di innovatore presentata ai suoi 93 milioni di follower di Twitter si celano pulsioni apparentemente più tradizionali.

Nessuno stabilimento Tesla o Space X ad esempio ha mai ammesso una rappresentanza sindacale. La situazione permette a Musk di intimare agli operai della fabbrica Tesla di Fremont – come ha fatto nel 2020 – di tornare alla catena di montaggio prima del nulla osta delle autorità sanitarie all’inizio della pandemia. Un paio di settimane fa è tornato a minacciare i suoi impiegati di licenziamento se non avessero fatto immediato ritorno agli uffici dopo mesi di regime a distanza.
Accanto al mito dell’imprenditore di se stesso a Silicon Valley, vige poi quello dell’imprenditore come benevolo monarca. Magnati tech come Musk e Jeff Bezos accusano i sindacati di ricattare le aziende e taglieggiare i lavoratori con le loro quote, mentre loro li renderebbero ricchi con premi in pacchetti azionari. Le recenti vertenze imposte dai lavoratori hanno però rivelato, dietro il vangelo dell’innovazione e dei “lavoratori-imprenditori”, dinamiche antiche del capitale. E le rivelazioni sulle condizioni in posti di lavoro come i magazzini di Amazon hanno generato una sorta di dissonanza cognitiva fra l’immagine dei magnati illuminati e lo sfruttamento sistemico dei lavoratori.

Su Twitter Elon Musk esprime ormai posizioni politiche sempre più reazionarie e liberiste, compreso un sostegno sempre più esplicito alle politiche di Trump. Altri come Peter Thiel, già socio di Musk nel sistema di pagamenti elettronici PayPal, ha da poco lasciato come consigliere a Facebook per dirigere una fondazione “anti-woke” di estrema destra che promuove e finanzia candidati ultra repubblicani per favorire la rielezione di Donald Trump. Quando si tratta di capitale, per citare Montesquieu, si direbbe che «il potere corrompe, il potere assoluto corrompe assolutamente».