Xi Jinping ha messo in “sicurezza” il Partito, ma all’esterno ci sono diverse incognite. Nella Repubblica popolare cinese un giovane di città su cinque è disoccupato. Il record del 19,9% dello scorso luglio preoccupa la leadership e la società civile, malgrado il problema non sia nuovo nel paese: il tasso di disoccupazione della fascia di età 16-24 aveva superato cifra doppia (10,09%) già all’indomani della crisi finanziaria globale, registrando una certa stabilità negli anni e poi crescendo di due punti percentuali nei primi mesi dallo scoppio della pandemia.

«L’alto tasso di disoccupazione spingerà sempre più giovani ad accettare condizioni di lavoro difficili», dice a il manifesto Aidan Chau, ricercatore della ong China Labour Bulletin (Clb). Molti di loro troveranno un impiego nelle aziende del tech cinese, ambienti criticati negli ultimi anni in quanto promotori del famigerato orario 996: lavorare dalle 9 di mattina alle 9 di sera per 6 giorni a settimana.

Le loro condizioni interne sono peggiorate per via di quegli intenti di ristrutturazione promossi da Pechino anche nell’ottica di tutelare i diritti dei lavoratori del paese. «Le aziende tecnologiche», continua Chau, si stanno «adeguando» alla stretta del governo e «stanno tagliando i costi in modo aggressivo». Lo dimostra il fatto che nei primi sei mesi di quest’anno il gigante dell’e-commerce e dei servizi di cloud computing Alibaba ha ridotto l’organico di 13mila unità, la più grande ristrutturazione dalla sua quotazione in borsa di otto anni fa.

«I nuovi assunti faranno esperienza di salari più bassi, orari di lavoro più lunghi e lavori più instabili», spiega. «Un’altra tendenza importante da notare è il numero sempre maggiore di giovani con un impiego flessibile o part-time, professioni che richiedono un ritmo di lavoro che alla lunga diventerà ingestibile, soprattutto visto il reddito instabile». Il numero di neolaureati che devono affrontare un mercato del lavoro stagnante e altamente competitivo registra una crescita costante: quest’anno ha raggiunto 10,76 milioni, 1,67 milioni in più rispetto al 2021.
Da anni il web funge da veicolo per le istanze dei giovani della classe media urbana del paese. Neologismi sempre più creativi (uno tra tutti tangping, “stare sdraiati”, una sorta di inno alla pigrizia) hanno denunciato la frustrazione generazionale e la volontà di non perseguire la tradizionale concessione di successo lavorativo.

«Ad oggi la perdita di fiducia nel futuro da parte dei giovani di classe media è evidente», spiega Diego Gullotta, docente della East China Normal University di Shanghai: «Se negli anni precedenti si ritardava il matrimonio, il mutuo, l’acquisto della macchina, ora per motivi sia economici che di stile di vita la famiglia non risulta più come il traguardo naturale per un neolaureato». Lo sa bene Pechino, che deve fare i conti con le previsioni sull’arrivo dell’inverno demografico, una fase di decrescita della popolazione che secondo le stime inizierà entro il 2025.

Una situazione portata al limite dalle chiusure a intermittenza previste dalla strategia nazionale Zero Covid, a cui a inizio Congresso Xi Jinping ha attribuito un ruolo essenziale nell’aver «protetto la vita delle persone». Sebbene gli striscioni appesi nella capitale nelle scorse settimane indichino un crescente malcontento tra la popolazione, Chau e Gullotta sono d’accordo nel non riconoscere in queste istanze dal basso una «minaccia immediata per la stabilità sociale»: i giovani di ceto medio possono ancora contare sul supporto economico dei propri genitori, una generazione che ha avuto esperienza di una maggiore sicurezza economica. A essere messa in discussione è quella che Gullotta descrive come la «stabilità dell’ordine culturale, da intendersi come l’assetto ideologico e le pratiche quotidiane promosse dal Partito».

Vale a dire la mobilitazione con cui il Partito richiede ai giovani di produrre e consumare al fine di coronare l’obiettivo storico del «ringiovanimento nazionale». Ma anche per perseguire altre strategie per l’immediato futuro che Xi ha citato nel discorso di apertura al XX Congresso: una tra tutti, l’«autosufficienza», soprattutto tecnologica, per rispondere a uno scenario internazionale sempre più teso.