Ci sono ragionamenti difficili da fare ma, non di meno, oramai imprescindibili e quindi irrevocabili. «Il buon senso c’era, ma stava nascosto per paura del senso comune». Così Alessandro Manzoni e, del pari, Liliana Segre. Forse sarebbe ora di iniziare a parlare di «diritto alla memoria». Non di dovere, che in sé pare quasi essere una sorta di imposizione. Non a torto, peraltro. Se l’età del testimone si sta definitivamente concludendo, allora sarebbe bene interrogarsi su come si racconterà il nostro comune passato, ossia quello di cui le generazioni successive si incaricano da subito di essere depositarie, nel loro tempo a venire.

DOVE MOLTO SARÀ comunque diverso da ciò che ancora adesso riteniamo di avere già conosciuto e acquisito. Poiché, in fondo, una qualche idea del passato può esistere in quanto conquista e non come il prodotto di una imposizione. Quindi, nella sua natura di condivisione civile e non di vincolo istituzionale. Posto che da tempo, oramai, c’è una pericolosa operazione in corso, qualcosa che si inquadra nel Kulturkampf che diverse destre, in Italia come in Europa, stanno portando avanti, per la quale la tragedia dell’ebraismo continentale, ovvero la Shoah, può benissimo essere compresa e accetta nel tempo presente, tuttavia decontestualizzandola e depurandola da qualsivoglia responsabilità politica.

Il precetto «né di destra né di sinistra», per poi isolare la seconda e renderla, passo dopo passo, in qualche modo responsabile di ciò che invece è parte costitutiva della prima, è infatti in atto. Da diverso tempo, infatti, attraverso lo slittamento progressivo del senso comune, quello che ripete il «sì, ma …», è in corso una colonizzazione da parte delle destre illiberali e extracostituzionali della memoria del passato. Si tratta di una ricostruzione, a proprio esclusivo beneficio, di quanto fu: la tragedia della fine delle democrazie e degli esiti estremi di dittature fasciste, viene capovolta, perdendosi in una totale indistinzione, dove la condizione di vittima alimenta l’orgoglio del martirio che è invece pratica comune di ogni apologia della morte. Al cuore, per capirci, dell’antropologia dei fascismi di sempre.

Il punto da cui partire, infatti, è proprio questo. Ovvero, non finisce la memoria civile dello sterminio ma si può piegare alle esigenze politiche (e ideologiche) di coloro che invece sono, a titolo assortito, nipotini, nonché irrisolti apologeti, di quel medesimo passato che l’ha generato. Sembra un paradosso ma, a conti fatti, non lo è per davvero. Poiché il furto di parole, idee e condizioni che furono delle vittime trascorse, è parte integrante del vittimismo fascistoide che accompagna i tempi che stiamo vivendo. Così come di quelli passati. Nel Mussolini che deturpava il linguaggio socialista, si rispecchiano ora le sorelle e i fratelli di un’Italia che si vuole sovranista. Se la storia non si ripete mai, le meccaniche ideologiche – invece – a volte ricompaiono. Come pregiudizio di senso comune, per l’appunto.

Liliana Segre

NON È QUINDI un paradosso che nel fuoco incrociato determinatosi in questi ultimi tempi sia rimasta impigliata, in quanto protagonista del nostro tempo confuso, Liliana Segre. Non nella sua persona bensì per la carica dirompente che porta con se stessa, ovvero per il fatto stesso di continuare ad esistere e testimoniare con il suo corpo, le sue parole, i suoi gesti, quanto per davvero avvenne. Una sorta di scandalo (il sopravvissuto ad Auschwitz testimonia non solo delle violenza del passato ma, soprattutto, contro il ripetuto sforzo dell’oblio nel presente) che non a caso una parte delle destre postfasciste e illiberali si sono immediatamente incaricate di neutralizzare.

Il volumetto, di agevole lettura, che la vede protagonista, La stella polare della Costituzione. Il discorso al Senato (Einaudi, pp. 76, euro 12), per la preziosissima, sapida e decisiva curatela di Daniela Padoan nonché con l’introduzione di Alessia Rastelli, è una sorta di summa di queste, e molte altre, questioni. In sé del tutto aperte. Tali non perché confuse ma in quanto politicamente irrisolte. Si tratta, per capirci da subito, di un attestato di consapevolezza che va ben oltre le circostanze per le quali il discorso inclusovi è stato espresso, ovvero la seduta inaugurale del nuovo Senato, quello della diciannovesima legislatura, tenutasi quindi il 13 ottobre 2022. Su questi elementi, la curatrice si sofferma ripetutamente.

La redazione consiglia:
Il discorso di Liliana Segre, la vertigine del centenario della Marcia su Roma

Un primo passaggio è il rimando al fatto che il 2022 sia il centenario della marcia su Roma. Così Segre: «Il valore simbolico di questa circostanza casuale si amplifica nella mia mente perché, vedete, ai miei tempi la scuola iniziava in ottobre», il mese in cui fu esclusa, dal regime fascista, dalla scuola medesima. Certo, come già si è detto, a conti fatti il passato non è destinato a ripetersi. Ma in una società smarrita, atomizzata, frammentata come quella italiana, e anche quelle europee, il bisogno di sicurezze e certezze, quand’anche esse dovessero poi rivelarsi solo delle illusioni, torna ad essere dirompente. Padoan, a tale riguardo, parla di «straniamento», la condizione, tanto più in questo caso, per la quale si dicono cose che accolgono l’applauso di circostanza di un’assemblea che pare invece perlopiù volta verso ben altri ordini di considerazione.

IN FRANCHEZZA, il problema dell’oggi non è quello di un ipotetico «fascismo di ritorno» bensì dell’eredità del neofascismo, di cui non pochi esponenti della maggioranza di governo, in vario modo, rivendicano la piena legittimità. Giorgia Meloni lo disse da sé, subito dopo la vittoria elettorale: «è una notte di orgoglio, di riscatto, lacrime, abbracci, sogni e ricordi. È una vittoria che io voglio dedicare a tutte le persone che non ci sono più e che meritavano di vivere questa nottata». Si tratta di una vera e propria epigrafe, che è anche una scrittura sepolcrale, da molti punti di vista. Teniamo a memoria i “nostri” morti, nel momento del grande passo, quello che da minoranza ci trasforma in maggioranza. Inseriamoli nel catalogo anestetizzante di una sequela di indistinzioni, quello della «notte delle vacche nere». Si possono mantenere in conto i morti anonimi, quelli assassinati nei forni crematori, espellendo dal consesso comune, invece, Giacomo Matteotti e Leone Ginzburg. Tanto per dire. Così Segre: «Si parla sempre di Shoah pensando ai nazisti, mentre la Shoah e la persecuzione ebraica che ha portato alla Shoah sono anche un problema italiano. Di qui sono partiti i treni». Dall’Italia, per l’appunto. Quella che oggi invece slitta, passo dopo passo, verso i lidi di Orbán.

Il furto di parole, idee e condizioni che furono delle vittime trascorse, è parte integrante del vittimismo fascistoide che accompagna i tempi che stiamo vivendo. Attraverso lo slittamento progressivo del senso comune, quello che ripete il «sì, ma …», è in corso una colonizzazione da parte di quest’area del ricordo del passato

Se non ci si avvede di una tale prospettiva, allora va riconosciuto che ogni orizzonte politico si sia definitivamente esaurito. Non vincono le destre illiberali e antipluraliste. Tramonta, semmai, la speranza di una democrazia inclusiva. La «memoria», in sé, conta assai poco. L’assenza di una consapevolezza del futuro è invece il vero dramma che stiamo vivendo. Liliana Segre non guarda al passato ma ci richiama alla nostra incapacità di osservare un qualche tempo a venire che non sia solo quello della costrizione e della dipendenza. I due capi estremi sui quali si sono costruite, nel Novecento, le peggiori tragedie.

IL CUI VERO CUORE NERO è la capacità, di quanti ne furono allora artefici ed oggi lontani depositari, di legittimarsi agli occhi dei più dichiarandosi politicamente e moralmente irresponsabili. L’autentico nocciolo, a ben vedere, del senso della catastrofe medesima. Che non nasce da un disegno definito bensì dall’«indifferenza», ovvero dall’avversione verso una società pluralista, complessa, stratificata. Il post-fascismo è ancora una volta soprattutto questo. Chi a ciò contrappone tutto il resto, partendo dalle incompiutezze delle democrazie per arrivare ai «crimini del comunismo» (un comodo lavacro, quest’ultimo, che servì, e torna a legittimare, l’abominio del fascismo) o è un servo sciocco oppure un cameriere infingardo. Nella non distinzione degli abomini, nella finta gerarchizzazione dei dolori, nella falsa comprensione delle sofferenze, si cela il dispositivo dell’annientamento. Delle coscienze così come dei corpi. Ancora una volta, ciò che chiamiamo con il nome di «politica», torna a ruotare intorno a questa essenziale consapevolezza. Si tratta dell’eredità di Auschwitz. E non solo di essa.