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La serie della discordia

Un'immagine dalla serie «Famagusta»Un'immagine dalla serie «Famagusta»

Cipro La questione cipriota si arricchisce di un nuovo capitolo. Il governo turco ha ottenuto da Netflix che «Famagusta», la fiction sulla presa dell’omonima città, sia trasmessa solo in Grecia

Pubblicato 23 giorni faEdizione del 13 settembre 2024

Nonostante la tempesta in corso in Medio Oriente, per i vicini prossimi Grecia e Turchia è un periodo di relativa tranquillità: la retorica incendiaria che fa da sfondo alla coabitazione dell’ultimo secolo e oltre, ultimamente è stata sostituita da un insolito basso profilo. Ma chi conosce i due paesi sa quanto poco basti perché ad Atene o Ankara a qualcuno saltino i nervi. Basta poco o basta parlare di Cipro; ecco, la questione cipriota è sempre una buona occasione per dimenticarsi di “guardare al futuro” e ricominciare a gettare un occhio sulla storica, lunghissima, lista di conti in sospeso.

AL CENTRO dell’ultimo episodio, di questi giorni, nella storia tra i rissosi vicini c’è questa volta un’intera serie tv, già entrata nelle case dei greci da gennaio attraverso il canale privato Mega e pronta al salto globale su Netflix. La serie, che è già alla quarta stagione, si chiama Famagusta, è una co-produzione greca e greco-cipriota ed è ispirata ai fatti dell’estate del ‘74 a Cipro: il golpe orchestrato dai colonnelli greci, con il sogno di enosis – annessione dell’isola alla Grecia – e l’occupazione turca che permane ancora oggi.

Famagusta racconta della presa dell’omonima città, un antico centro costiero sul versante orientale dell’isola, dalla quale fuggirono in poche ore migliaia tra residenti e turisti; tra questi una giovane coppia che nella concitazione della fuga perde il figlio di appena tre mesi. La serie ruota attorno a questa vicenda umana e al tentativo, ancora 50 anni dopo, della coppia, di ritrovarlo.

Se la messa in onda in Grecia a gennaio non aveva scatenato chissà quale reazione in Turchia, quando Netflix ha annunciato durante l’estate di averne acquistato i diritti e programmato l’uscita per il 20 settembre, i turchi si sono posizionati dietro le barricate: dal ministro degli esteri che ha definito la serie «cupa propaganda che distorce fatti storici», fino al vice presidente Cevdet Yilmaz che se l’è presa con Netflix, la condanna dai vertici della mezza luna è stata unanime. E alle parole sono seguiti i fatti: dopo le proteste la piattaforma americana ha ceduto, accettando di tenere la serie della discordia in esilio, tra gli stretti confini della Grecia e di non inserirla nel catalogo di altri paesi.

Vittoria per Ankara? I maligni sottolineano come la Turchia sia così intransigente sulla narrazione cipriota perché l’operazione militare del ‘74 rappresenta, ad oggi, l’unica vittoria militare dalla caduta dell’Impero Ottomano ma l’immagine dei liberatori della “loro” minoranza turco-cipriota non cancella lo stallo in cui versa Cipro da mezzo secolo.

E NON CONVINCE tutti, neanche tra i fratelli ciprioti. Ironia della propaganda, a iniziare con le serie sulla tormentata questione cipriota furono proprio loro: nel 2021 Kibris: Zafere Dogru (Cipro: Verso la vittoria) che racconta del Bloddy Christmas, il massacro di turco-ciprioti nel 1963 per mano di nazionalisti greco-ciprioti, venne trasmessa dalla tv nazionale turca Trt ma i primi ai quali non piacque furono proprio i turco-ciprioti. Per questo, il presidente della repubblica secessionista Ersin Tatar ha rilanciato: produciamo una nostra “contro serie” e dalla Turchia, il ministro della difesa non ha perso l’occasione e ha annunciato questa settimana che lunedì prossimo Trt Belgesel, un canale della rete nazionale, trasmetterà un documentario dal titolo 50nci Yil Belgeseli (Documentario sul 50esimo anniversario) che promette di raccontare «tutta la verità» sull’operazione a Cipro (con una frecciatina a Netflix, taggato nel post).

Un'immagine dalla serie «Famagusta»
Un’immagine dalla serie «Famagusta»

SULLO STANDARD cipriota, se non ci fosse stato il colpo di scena con il passo indietro di Netflix, saremmo nell’ordinaria amministrazione delle opposte narrazioni che su entrambi i lati della divisione hanno disegnato la storia recente a proprio uso e consumo: la Grecia e i greco ciprioti piangono per i caduti e protestano contro l’occupazione della Turchia mente dall’altra parte della Green Line, la Turchia e alcuni turco ciprioti, festeggiano la liberazione e l’“Operazione di Pace”. Ciò che lascia perplessi è la rapidità con cui le autorità turche siano riuscite a convincere il colosso americano, tra l’altro in presenza di una produzione in circolazione già da tempo.

Per chi non conoscesse a fondo le vicende cipriote, vale la pena un passo indietro su Famagusta, e la sua riviera fantasma Varosha. Soprattutto sul perché siano oggetto di tanta attenzione. Quel tratto costiero incastonato tra la base militare inglese di Dekhelia e la zona cuscinetto Onu, che divide la Repubblica di Cipro e quella secessionista del nord è uno dei simboli della guerra del 1974 e certamente uno dei nodi più controversi. È un simbolo per i residenti greco-ciprioti che per mezzo secolo hanno potuto solo vedere le loro proprietà di un tempo, abbandonate, sgretolarsi dietro chilometri di filo spinato; ed è un simbolo per il dark tourism di influencer e Youtuber che vengono in massa a Cipro, attirati dal brivido lungo la schiena di quelle sagome di edifici sventrate e dalle insegne scolorite di discoteche e negozi per turisti, ultime tracce degli hey-day di prima dell’invasione.

VAROSHA venne presa ad agosto del 1974 nel corso della seconda fase dell’“Operazione Attila”, il nome che venne dato dalla Turchia all’intervento militare che portò all’occupazione del 37% dell’isola, quando i negoziati di pace sotto l’egida dell’Onu erano precipitati. A luglio, l’esercito della mezza luna aveva catturato il 3% dell’isola ma quando le trattative saltarono, meno di un mese dopo, i soldati ebbero ordine di puntare verso sud e tra i territori conquistati prima del cessate il fuoco, ci fu anche Famagusta allora nel periodo di picco della stagione turistica: oltre a rappresentare una località di fama internazionale, per Cipro era una delle aree più ricche e sviluppate tra quelle a maggioranza greco-cipriota. La città venne evacuata in poche ore e ai residenti venne detto di portare solo l’essenziale perché sarebbero rientrati di lì a qualche giorno.

In realtà, nessun civile avrebbe più messo piede nella zona fino al 2021: la Turchia aveva preso così un importante centro economico e lo aveva convertito in un’area militare, lasciando divorare le infrastrutture al tempo e alle intemperie.

LA CITTÀ di Famagusta si così è caricata di un tale significato da essere diventata una dei maggiori ostacoli per la riunificazione, oltre ad aver impegnato diverse risoluzioni del Consiglio di Sicurezza Onu – che ne hanno ribadito negli anni il divieto per gli occupanti di disporne e l’obbligo di consentire il rientro alla popolazione o ai loro discendenti. Nel 2021 in piena pandemia e ignorando le proteste dei residenti di una volta, dell’Ue e dell’Onu, la Turchia ha dato il via libera a una sorta di parziale e crudele riapertura della Riviera fantasma: nessuno ha potuto fare ritorno nelle case di un tempo, ma file di bus pieni di turisti giungono ora ogni giorno per visitare l’area come fosse un sito archeologico, con gli immobili-trofei dietro transenne e un servizio di navette o biciclette in affitto che consente a tutti di girare e fare selfie tra le macerie della ricchezza di un tempo. Ankara sogna lusso e investimenti, al posto degli scheletri di edifici, mentre i discendenti dei residenti di un tempo, rivorrebbero indietro un pezzo del loro passato. Per ora, Varosha è meno città proibita di prima (anche se un bel pezzo è ancora area militare), ma se lo scontro muove le cancellerie, riconosciute o meno, anche per una serie su Netflix, vuol dire che la strada per la soluzione alla questione cipriota è ancora molto lunga.

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