Soprannominato il re del calcio, l’ex attaccante Ali Daei ha osato denunciare la violenza e la repressione delle autorità iraniane e per questo gli è stato confiscato il passaporto. Nonostante le intimidazioni, le proteste continuano. Sabato era insorto anche il quartiere di Teheran Nazi Abad, dietro la stazione ferroviaria, a sud del centro storico, abitato dal ceto medio. In quel corteo, alcuni poliziotti camminavano insieme ai manifestanti. Stesso copione domenica. Quando un quartiere come questo manifesta, senza che la polizia carichi la folla, vuol dire che qualcosa sta cambiando. Ieri hanno scioperato gli operai del settore industriale. Alcuni video li mostrano mentre bruciano copertoni davanti all’impianto petrolchimico di Asalouyeh, nel sudest dell’Iran. Ulteriori scioperi si sono verificati nelle fabbriche di Abadan (sudovest) e Kengan (sud).

IN QUESTE SETTIMANE a Sanandaj, capoluogo della provincia del Kurdistan iraniano di cui era originaria Mahsa Amini, le proteste sono state tra le più importanti e, per questo, domenica le forze di sicurezza hanno usato le mitragliatrici. Le autorità della Repubblica islamica continuano ad accusare Washington di fomentare il dissenso. È possibile, anzi verosimile, che gli Stati uniti si diano da fare per un cambio di regime. Se la Repubblica islamica crollasse sarebbe la vendetta perfetta, a distanza di 43 anni, dalla presa degli ostaggi americani nell’ambasciata a Teheran il 4 novembre 1979. Ma le interferenze non avrebbero però alcuna presa se lo scontento non animasse già gli iraniani. La rabbia è diffusa, soprattutto per il divario sociale crescente e per il fatto che, se un tempo i ricchi erano tali da generazioni, i nuovi ricchi sono i pasdaran che reprimono il dissenso.
Intanto, in Italia i mezzi di informazione sembrano fraintendere quello che sta succedendo in Iran. Innanzi tutto, le rivolte vengono fatte passare per una «rivoluzione femminista», laddove invece le proteste innescate dall’uccisione di Mahsa Amini coinvolgono tantissimi uomini e hanno dimensioni molteplici. Le folle non contestano soltanto l’obbligo del velo, ma lanciano un j’accuse nei confronti di una leadership incapace di far funzionare l’economia in un Paese ricco di risorse ma con disoccupazione e inflazione a due cifre. E infatti, ieri davanti al Politecnico di Teheran la folla denunciava «la povertà e la corruzione».

INOLTRE, LA CRISI ambientale è tra i temi caldi, soprattutto in città come Urmia (provincia dell’Azerbaigian occidentale) dove manca l’acqua. Definire le rivolte come «femministe» è fuorviante, anche se serve a vendere i giornali e a fare audience in tv come accadde durante la rivoluzione del 1979: le donne avvolte nel chador erano una minoranza, ma il corrispondente della Bbc aveva ricevuto l’ordine di riprendere con la telecamera soltanto loro, perché avrebbero fatto salire gli ascolti, e non quelle vestite all’occidentale.
In secondo luogo, numerose immagini riproposte sui media nostrani mostrano le bandiere dei monarchici con al centro il leone con la spada e il sole dietro di lui. Il figlio dell’ultimo scià Muhammad Reza Pahlavi e di Farah Diba vive nella ricchezza negli Stati uniti. È l’erede al trono e vorrebbe tornare in patria. Ma non è questo l’obiettivo dei manifestanti – quelli in Iran – dove nessuno sventola quella vecchia bandiera. Se circolano immagini di quello stendardo è solo perché nelle manifestazioni in Europa ci sono anche alcuni sparuti sostenitori di una monarchia che non ha alcun appeal in Iran. E, tranne qualche minoranza, nemmeno gli iraniani della diaspora puntano al ritorno dei Pahlavi, che tanti diritti repressero nel sangue.

E ORA UN SUGGERIMENTO a coloro che fanno politica, e quindi hanno il potere di cambiare le cose. Tagliarsi la ciocca di capelli in pubblico, oppure sui video divulgati sui social, è un bel gesto individuale di solidarietà nei confronti delle iraniane. Dopo quattro settimane di proteste, alla consigliera del Comune di Milano Diana De Marchi e ai suoi colleghi del centrosinistra che si sono recisi una ciocca di capelli – che spediranno all’ambasciata iraniana a Roma – chiediamo qualcosa di più: il governo di Kiev non ha rinnovato i visti agli studenti iraniani iscritti nelle università ucraine e tra qualche giorno questi giovani saranno espulsi. Sarebbe opportuno trovare loro un posto negli atenei italiani. I gesti simbolici non bastano, siamo donne e – a ogni latitudine – a contraddistinguerci è la concretezza.