Visioni

La ricerca di un’immagine per dire del tempo presente

La ricerca di un’immagine per dire del tempo presenteUna scena di «Agora» di Ala Eddine Slim

Locarno 77 La selezione del festival cerca di mappare nuove forme di narrazione. Una scommessa a rischio

Pubblicato 3 mesi faEdizione del 15 agosto 2024

Come raccontare il tempo e il mondo? È una delle domande, forse la più ricorrente, che si impone sugli schermi locarnesi, quasi uno spazio comune in cui registe e registi delle diverse sezioni – e con essi i selezionatori – interrogano il cinema contemporaneo nell’ambizione di trovare una «misura» diversa rispetto alla moltiplicazione delle immagini che oggi divulgano il reale. Nelle opere viste fin qui fra i due concorsi, quello internazionale e i Cineasti del presente – a volte assai prossime da non capire le logiche che ne stabiliscono la collocazione – il nostro tempo e i suoi conflitti diventano dunque la bussola principale: ambiente, migrazioni, guerre, capitalismi ritornano nelle narrazioni che cercano possibilità formali per dargli un impatto diverso. Ma quale?

PRENDIAMO uno degli ultimi titoli del concorso nel festival che si avvia alla chiusura con qualche tempesta annunciata (per ora rimasta lontana) di cieli scuri e vento improvviso sulla cittadina ticinese meno affollata di vacanzieri del Ferragosto di altre volte. Si tratta di Agora di Ala Eddine Slim che col suo precedente The Last of Us (2016) aveva vinto il premio opera prima alla Mostra di Venezia – era stato presentato nella Settimana della critica allora curata dall’attuale direttore di Locarno, Giona A.Nazzaro. Anche produttore con la sua Exit Productions, fra le prime strutture produttive indipendenti in Tunisia, Eddine Slim nel suo lavoro fa di questo confronto con l’oggi un obiettivo sin dai primi film come Babylon (2012) girato nei giorni successivi alla «primavera libica» sul confine fra Libia e Tunisia dove migliaia di persone si erano riversate cercando una via di fuga alle violenza sempre più feroci. La troupe di tre registi sul campo documentava quel quotidiano di profughi, aiuti internazionali, associazioni umanitarie, media decostruendo al tempo stesso l’immagine mediatica prevalente con cui tutto ciò veniva mostrato nel mondo.

La Tunisia di «Agora» e di «Les enfants rouges», le questioni ambientali

Gli stessi «temi» ritornano qui ma nella dimensione astratta che era già di The Last of Us in un intreccio che allude esplicitamente alle fratture politiche nella Tunisia di Kais Saied – colui che fa gli accordi col governo Meloni e l’Europa per fermare migranti – dove la possibilità di un cambiamento sembra sepolta a favore di nuovi sfruttamenti e repressione orchestrati con tattica comune dai vari poteri, polizia, governo, religione.
Tre revenant appaiono nella cittadina da cui erano scomparsi anni prima: un uomo con la gola tagliata, una donna affogata nel mare mentre cercava di emigrare, un altro uomo morto nella sabbia del cantiere. Segnali inquietanti di apocalisse accompagnano la loro presenza, la verdura e la frutta marciscono, i pesci muoiono in mare: cosa sta succedendo? Il capo della polizia locale indaga, il medico vorrebbe studiare il caso, arrivano le squadre speciali dalla capitale, la popolazione è in rivolta, l’imam rimane la sola risorsa.
A narrare sono due animali, un corvo (assai pasoliniano) e una cane blu che proiettano le sorti di questa umanità distruttrice nei loro sogni. L’autore nelle note di regia dichiara di voler mostrare l’incapacità di confrontarsi con un «passato collettivo» – l’allusione al terrorismo, la fine del sogno di democrazia, la povertà, la violenza. C’è molto, forse troppo, per una materia su cui la volontà di trovare una forma cinematografica non banale rischia di fare perdere il controllo.

«Les enfants rouges» di Lotfi Achour

AL PASSATO della Tunisia guarda anche Les enfants rouges (Cineasti del presente), mappatura delle condizioni di chi ha vissuto violenze e guerre e è emarginato in luoghi di costante pericolo. Due cugini pastorelli attraversano una linea di confine proibita, dal campo di rifugiati dove vivono finiscono nel terreno dei terroristi che li catturano. Il maggiore viene decapitato, si vedrà poi un video nel quale confessa di spiare per conto dell’esercito. L’altro deve portare indietro la sua testa. Lofti Achour si è ispirato a una vicenda di cronaca accaduta in Tunisia nel 2015, il periodo di più alto scontro dei jihadisti con l’allora governo tunisino per questo romanzo di formazione che nell’esperienza del ragazzino sopravvissuto, e nel suo confronto con questa morte orrenda e col dolore riesce a mantenere una lucidità priva di vendetta rispetto all’agire scomposto dei più adulti. Anche qui nonostante il riferimento storico il regista guarda a una condizione più generale, a quei conflitti mai finiti, seppure silenti, che massacrano la vita delle persone che nell’indifferenza di ogni politica. Una condizione a cui questi ragazzini cercano di oppore un possibile futuro.

SI PARLA di inquinamento in Fario (Cineasti del presente)di Lucie Prost che unisce la crisi ambientale – causata da traffici loschi di interessi locali – al forte spaesamento emozionale del giovane protagonista dopo la morte del padre. Tornato nella sua cittadina di origine da cui è andato via tempo prima, si ostina a cercare prove che mostrino la morte del fiume per sostanze tossiche mentre prova a confrontarsi coi propri sentimenti. Il tutto però senza sussulti, in una narrazione orizzontale che non si apre fuori dalla logica dello script. La stessa cifra che caratterizza un altro dei film ambientali in concorso, Transamazionia di Pia Marais scrittrice e regista sudafricana che nei suoi lavori ricorre spesso al genere per confrontarsi con questioni di attualità. La deforestazione amazzonica e la repressione degli indigeni si intrecciano qui alla vicenda di un padre e di una figlia sopravvissuta a un incidente aereo e perciò con la fama di avere poteri di guarigione. Capiamo le necessità del premio Green ma questa prevedibilità di scrittura priva di un solo istante di cinema si può forse evitare.

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