Le foto diffuse sulle reti sociali mostrano il corpo di un uomo steso al suolo, con il torace nudo colpito da un gran numero di quelli che sembrano pallini da caccia. Il suo nome era Henry Quezada Espinoza, 39 anni, ucciso giovedì nel parco cittadino El Arbolito, già epicentro della rivolta dell’ottobre 2019 contro il governo di Lenin Moreno.

IN QUEL PARCO i manifestanti erano giunti fuggendo dall’attacco scatenato dalla polizia contro una pacifica e partecipatissima marcia, guidata dal presidente della Conaie Leonidas Iza, verso la sede dell’Assemblea nazionale. La stampa l’ha descritta come un «assalto al parlamento», ma l’obiettivo, secondo il leader della Confederazione nazionale delle organizzazioni contadine Gary Espinoza, era quello di chiedere al presidente del parlamento Virgilio Saquicela (di tutt’altro avviso) l’attivazione del processo di destituzione del presidente Guillermo Lasso. Di punto in bianco, tuttavia, la polizia aveva iniziato a lanciare bombe lacrimogene per disperdere la folla, malgrado poco prima il generale Freddy Sarzosa si fosse rivolto ai partecipanti alla marcia riconoscendo loro il diritto di protestare in maniera pacifica.

È NEI SUCCESSIVI SCONTRI nel parco El Arbolito tra le forze di sicurezza e una parte dei manifestanti in fuga che è stato ucciso Quezada Espinoza: è la terza vittima in quattro giorni e, proprio come per le prime due, la polizia ha respinto qualsiasi responsabilità.

Del giovane morto lunedì precipitando da un burrone a Guayllabamba, in mezzo a un lancio di lacrimogeni sparati contro gli indigeni in marcia verso Quito, la polizia ha detto che si era trattato solo di un incidente estraneo all’attività delle forze di sicurezza impegnate nell’area. Del giovane indigeno ucciso martedì a Puyo da una bomba lacrimogena che lo ha raggiunto alla testa, ha detto che manipolava esplosivi.

Quanto all’ultima vittima, il ministro dell’Interno Patricio Carrillo ha assicurato che il personale della polizia non era andato in strada «con elementi come carabine, fucili a pallettoni o armi letali, ma solo gas lacrimogeno, autorizzato dalla legge». E che, dunque, Quezada Espinoza sarebbe stato ucciso da un colpo sparato da un manifestante.

Di certo la notizia della sua morte, nell’undicesimo giorno delle proteste contro il governo Lasso, è deflagrata come una bomba tra i manifestanti, allontanando bruscamente ogni prospettiva di dialogo tra le parti. Tanto più che l’Alleanza di organizzazioni per i diritti umani riferisce, oltre ai 3 morti, 49 casi di violazioni dei diritti umani, 92 feriti, 94 arresti e 4 scomparsi: un bollettino di guerra che non incoraggia di sicuro le trattative con il governo.

E al riguardo la confederazione indigena Conaie era stata assai chiara, ponendo come condizioni irrinunciabili per sedersi al tavolo dei negoziati lo stop immediato alle azioni di repressione e criminalizzazione, il ritiro dello stato d’eccezione, il rispetto delle aree in cui trovano accoglienza i manifestanti e l’impegno da parte del governo a includere nell’agenda negoziale tutte e dieci le richieste avanzate dalla Conaie, relative, tra l’altro, al vertiginoso aumento del costo della vita e dei carburanti, all’accesso a istruzione e sanità e all’ampliamento della frontiera mineraria e petrolifera. Condizioni tutte disattese dal governo, il quale si è limitato appena a concedere alla Conaie l’accesso alla Casa della Cultura per un’assemblea popolare.

È IN QUESTO QUADRO che prende sempre più forza l’obiettivo della destituzione del presidente Lasso, per quanto inizialmente estraneo alla convocazione da parte della Conaie, il 13 giugno, del paro nacional. Un segnale che non va preso alla leggera, considerando la lunga esperienza in fatto di insurrezioni popolari accumulata dal movimento indigeno, la cui partita con il potere è già costata il posto, in appena a 8 anni, a ben tre presidenti: nel 1997 Abdalá Bucaram, soprannominato el Loco («il pazzo») per il suo comportamento eccentrico; nel 2000 Jamil Mahuad, il padre della dollarizzazione; e nel 2005 Lucio Gutiérrez, il «traditore», eletto nel 2002 grazie ai voti della sinistra e degli indigeni per porre fine alle devastanti politiche neoliberiste che avevano messo in ginocchio il Paese ma subito trasformatosi nel «migliore alleato degli Stati Uniti».

È rimasto invece al suo posto, malgrado il livello infimo di consensi, il predecessore di Lasso, Lenin Moreno, un altro voltagabbana che, eletto dalle forze progressiste, aveva poi sposato in pieno il programma delle destre. Ma anche Moreno aveva dovuto far fronte, nell’ottobre del 2019, a una grande rivolta popolare, innescata da un pacchetto di misure anti-sociali sollecitato dal Fondo monetario internazionale che prevedeva, tra l’altro, l’eliminazione dei sussidi statali ai combustibili.