L’inchiesta della procura di Perugia sugli accessi irregolari agli archivi investigativi, con conseguente raccolta e diffusione di dati riservati di privati cittadini non è in verità così grande come le reazioni indignate (soprattutto della destra) vogliono far apparire. I reati sin qui ipotizzati sono piccoli: falso, accesso abusivo ad archivi informatici, abuso d’ufficio (peraltro in via di abrogazione). Questo, va da sé, al di là del lungo elenco di politici, calciatori e personaggi dello spettacolo i cui dati sono stati spiati senza apparente motivo né autorizzazione. Il punto è nella storia che sta dietro tutto questo, dove il concetto di inchiesta spesso si avvicina pericolosamente a quello di inquisizione. Esistono, insomma, investigatori che svolgono il proprio lavoro accumulando grandi quantità di informazioni preliminari, approfondimenti sulle vite degli altri, «dossier» si potrebbe anche dire: carte di varia natura, fascicoli «pre-investigativi» che quasi mai contengono notizie di reato e quasi sempre solo notizie di contorno. La tesi di fondo è che il controllo totale della situazione sia fondamentale per l’esercizio dell’azione penale. In verità spesso e volentieri le indagini fanno naufragio perché sono solo contorno e niente piatto forte.

BISOGNA ANDARE con ordine: lo stato dispone di diversi canali attraverso i quali immagazzina dettagli biografici sui cittadini. Il più famoso è il cosiddetto Sdi (Sistema d’indagine) che raccoglie tutte le informazioni di polizia, dalle denunce per smarrimento della carta d’identità in avanti. Nulla si perde e tutto resta in archivio, a disposizione per ogni evenienza. Poi c’è il Centro di elaborazione dati interforze (Ced), che funziona come lo Sdi ed è a disposizione di tutte le autorità investigative. Serpico è invece il nome della banca dati con le operazioni finanziarie fatte con bancomat e carta di credito. E ancora: Siva è lo strumento usato dalla guardia di finanza per le segnalazioni sospette, e Jesus è la stessa cosa ma lo usa la Dia. Sopra c’è Sogei: diciottomila server di proprietà del ministero dell’Economia che tengono conto di ogni centesimo che si muove nel paese (e, in passato, ha realizzato i codici fiscali di tutti gli italiani). Per gli atti delle procure la banca dati si chiama Rege, fa parte del Sistema Informativo della Cognizione Penale (Sicp), e dentro ci sono tutte le inchieste d’Italia. La mole di dati, si capisce, è ingente e più volte, soprattutto nelle commissioni giustizia di Camera e Senato, ci si è interrogati sulla gestione del tutto. Non ci sono risposte definitive, a parte che per le intercettazioni: sin qui i dati sono stati custoditi da società private ma sono in via di perfezionamento dei server pubblici nazionali da dedicare a questo scopo. Quando ancora non si sa.

SE È VERO che l’informazione è potere, aver accesso a queste banche dati diventa automaticamente un affare delicato. Infatti ogni accesso andrebbe motivato e autorizzato. Il problema, stando a quanto emerso dall’inchiesta perugina, è che non sempre è andata così. I due principali indagati sono il tenente della guardia di finanza Pasquale Striano e il magistrato Antonio Laudati. I due hanno in comune il fatto di aver fatto parte della direzione nazionale antimafia e antiterrorismo (il primo come comandante del gruppo Sos e il secondo come coordinatore dello stesso gruppo) e, sostiene il procuratore di Perugia Raffaele Cantone, avrebbero estratto dalle banche dati informazioni riservate su almeno 800 persone. A che scopo? A beneficio di alcuni giornali, almeno in parte. L’inchiesta, del resto, è cominciata dopo un esposto del ministro della Difesa Guido Crosetto, che dopo aver letto sul Domani un articolo sui compensi ricevuti in qualità di consulente per l’industria delle armi, aveva deciso non di querelare ma di presentare un esposto per indagare sulla diffusione di quelli che sono atti riservati. Ma c’è anche dell’altro: gran parte delle informazioni uscite grazie a questi accessi irregolari non è mai finita sui giornali, e così adesso in molti si chiedono a che pro siano state tirate fuori. La destra grida al dossieraggio e suggerisce l’esistenza di un qualche non meglio precisato potere che accumula informazioni personali forse a scopo di ricatto. «Gravissimo», dice Meloni in coro con Nordio, mentre dalle parti del Pd Schlein pure parla di «scandalo» ed esorta a «fare chiarezza».

IL MISTERO però resta fitto, mentre indaga anche la procura di Roma perché, tra le carte di Perugia, c’è anche il nome dal presidente della Federcalcio Gabriele Gravina. Intanto le ombre si allungano verso le retrovie, cioè verso i vertici della Direzione nazionale antimafia. L’ex procuratore nazionale Federico Cafiero De Raho, il 1 luglio 2019, ricevette un atto di impulso proveniente da Laudati e costruito grazie agli accessi di Striano. Il suo successore, Giovanni Melillo, il 23 marzo del 2023 inviò degli atti alla procura di Roma sempre dietro segnalazione di Laudati. Le due circostanze sono raccontate nel fascicolo della procura di Perugia. Adesso De Raho è in senato con il M5s, e fa parte proprio della commissione antimafia che oggi pomeriggio ascolterà Melillo e per questo viene contestato, tanto che c’è chi gli chiede di non partecipare all’appuntamento. Sullo sfondo c’è un ultimo nome, pure citato nell’indagine di Cantone perché in almeno un’occasione (nell’ottobre del 2021) è stato sollecitato da Laudati: Giovanni Russo, per anni procuratore nazionale aggiunto dell’antimafia, superiore diretto di Laudati, e, dal gennaio de 2023, capo del Dap scelto dal governo Meloni.