L’affondo di Zelensky contro Berlusconi è feroce: «Si vede che non si è trovato mai sotto i bombardamenti, con un carro armato in casa, senza cibo per giorni. Si vede che non gli hanno mai ucciso qualche parente». La polemica però non sfiora la premier italiana, al suo fianco in conferenza stampa a Kiev. L’assonanza è anzi tanto completa che, dopo la risposta di Giorgia Meloni alla inevitabile domanda sul rischio di cedimento di una maggioranza in cui due alleati su tre simpatizzano per Mosca, l’ucraino chiede addirittura ai giornalisti: «Dopo quanto ha detto Giorgia c’è ancora bisogno che risponda?». Poi però risponde e prende di mira il Cavaliere ma senza allargare il campo di un solo centimetro: «I leader prendono le posizioni che vogliono. Non è questo l’importante». A ruota l’ospite rincara: «Per me contano solo i fatti: la maggioranza ha sempre votato compatta i sostegni all’Ucraina e così continuerà a fare perché questo era nel programma per cui gli italiani ci hanno votato». A Berlusconi e a Salvini hanno certo fischiato le orecchie. «Sono stupito: non è vero che non ho conosciuto la guerra», commenta a caldo il Cavaliere che medita di rispondere al più presto, ma resiste alla tentazione di farsi sentire con una nota pubblica .

DI MARGINI DI AMBIGUITÀ, l’italiana non ne lascia alcuno. Non solo fa piazza pulita di ogni argomentazione berlusconiana sulle responsabilità anche ucraine nella crisi ma indica Zelensky come l’unico che stia cercando una soluzione diplomatica. E quando le segnalano che il 55% degli italiani è stanco del sostegno all’Ucraina non la manda a dire: «Tutti vogliamo la pace ma c’è una sola pace duratura e giusta». Quella che non penalizza l’Ucraina, non implica cessione di territori, non legittima «chi vuole ridisegnare i confini con la forza». È la pace che conseguirebbe a una «vittoria dell’Ucraina», formula che non a caso Meloni adopera più volte per poi spingersi anche oltre: «Solo chi invia armi all’Ucraina vuole davvero la pace». Somiglia un po’ all’orwelliano «La guerra è pace» ma tant’è. È ciò che Giorgia Meloni pensa davvero, quel che Zelensky vuol sentir dire e anche quel che serve per chiudere l’incidente Berlusconi.

ANCHE SE PROPRIO sulle armi si registra il solo momento di fuggevole imbarazzo dell’intera giornata. «L’invio dei caccia non è sul tavolo», afferma secca ma con gli occhi bassi l’italiana. La spinosa faccenda teneva banco da ore a Roma, con il ministro degli Esteri che anticipava la posizione poi sancita a Kiev da Meloni e il suo vice, Edmondo Cirielli, targa FdI, che appariva invece infinitamente più possibilista. Ma quel passo per ora non si può fare e non si farà anche se l’alleata di Roma ci tiene a sottolineare, in contrasto con la linea non solo del Cavaliere ma di tutta Fi, che «quando c’è un Paese aggredito tutte le armi sono difensive». Si sa che ad Arcore pensano il contrario. Proprio la distinzione tra armi «difensive» e «offensive», cioè tali da colpire oltre i confini ucraini, è la linea del Piave. La premier non concorda affatto, lo dice chiaramente ma l’invio dei caccia resta fuori discussione.

A TRARRE FUORI di imbarazzo l’alleata di Roma è lo stesso Zelensky, che esalta in ogni modo la portentosa utilità dei sistemi di difesa antimissile che l’Italia invierà: tecnologicamente all’avanguardia, fondamentali per «difendere la vita degli ucraini che è la cosa più importante». Non è solo sceneggiata a uso dei media. Meloni e Zelensky parlano davvero la stessa lingua e si vede che ne sono consapevoli. Ma c’è probabilmente da entrambe le parti anche un calcolo politico. Se l’inquilina di Chigi ha bisogno che sia dissipata ogni ombra sulla fedeltà dell’Italia e del suo governo, il presidente ucraino ha bisogno di lei per evitare che in Italia prendano il sopravvento gli umori più scettici, col rischio di innescare un effetto domino nell’intera Europa dell’ovest.

NON HANNO PARLATO solo di guerra i due leader, nel colloquio di ieri pomeriggio, ma molto anche di ricostruzione. Non è la prima volta che si affronta il lucroso capitolo. Ma rispetto al passato c’è una differenza: «La ricostruzione deve partire subito, senza attendere la fine della guerra. È il modo migliore per scommettere sulla vittoria dell’Ucraina». Certo, è anche un affare d’oro.