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La posa che ruba l’anima indiana

La posa che ruba l’anima indianaMaharaja Sawai Ram Singh II, General view of the City Palace, 1870 c.

Mostre fotografiche A New Delhi, l'archivio di immagini del Maharaja Sawai Ram Singh II

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 7 settembre 2019

Il travestimento, certamente, fa parte della messinscena: un elemento che accomuna i fotografi ritrattisti di tutti i tempi, soprattutto quando si parla di fotografia pionieristica. Un travestimento che non significa semplicemente indossare i panni dell’altro, ma mettere in scena un’azione performativa costruita dal fotografo intorno e con la complicità del soggetto.
Nella messa in posa, come è noto, si giocano ruoli decisivi nel tentativo di catturare l’intima essenza dell’essere umano: serissimo scrutatore di sé e del mondo che lo circonda, così appare nelle innumerevoli immagini dell’epoca Sawai Ram Singh II, maharaja di Jaipur e fotografo amatoriale con quei suoi baffi arricciati all’insù mentre prega, indossa la collana rudraksha (era devoto di Shiva), monta a cavallo, tiene in mano gli occhiali, veste i panni di un guerriero Rajput, di un sadu, di un bramino o di un gentleman.

MEMORIE D’ARCHIVIO
Maharaja Sawai Ram Singh II (1833-1880) ha praticato la fotografia per circa un ventennio della sua vita (fu anche membro della Bengal Photographic Society di Calcutta), sperimentando con curiosità i diversi generi – dal ritratto all’autoritratto, dal paesaggio alle vedute urbane – attento osservatore e conoscitore anche degli aspetti tecnici legati alla fotografia, come vediamo nella rassegna A reflective oeuvre. The Pioneering Photographs of Maharaja Sawai Ram Singh II, curata da Giles Tillotson, Mrinalini Venkateswaran e Rahaab Allana e organizzata con la collaborazione del Maharaja Sawai Man Singh II Museum di Jaipur e di Alkazi Foundation for the Arts (il più grande archivio fotografico privato dell’India e del Sudest asiatico con i suoi fondi di oltre 100mila pezzi del XIX e XX secolo, tra cui una serie di stampe vintage di Sawai Ram Singh), in partnership con Exhibit 320 alla galleria Art Heritage, Triveni Kala Sangram di New Delhi (visitabile fino al 18 settembre).

Una mostra che mette in dialogo le foto d’archivio del maharaja con le opere di Nandan Ghiya (Jaipur 1980), un giovane artista che riformula il concetto di album fotografico, attingendo a un repertorio del passato che manipola con ironia per analizzare diversi aspetti della percezione. Ma torniamo a Sawai Ram Singh e alla sua passione per la fotografia che è documentata dal 1864, quando il fotografo Murray arrivò a Jaipur per la prima volta. La Città Rosa ha registrato, nel tempo, la presenza di numerosi altri personaggi legati alla fotografia, inclusi i noti fotografi Samuel Bourne & Charles Shepherd, autori del ritratto del maharaja nel formato carte-de-visite; il fotografo indiano Lala Deen Dayal (conosciuto come Raja Deen Dayal) nominato dalla Regina Vittoria Royal Warrant of Appointment, a cui lo stesso Sawai Ram Singh commissionò le vedute di Jaipur che egli terminò solo sopo la morte del committente. Anche lo scrittore, viaggiatore e fotografo francese Louis Rousselet soggiornò a Jaipur nel 1866, annotando l’incontro con Maharaja Sawai Ram Singh II di cui ebbe modo di riscontrare una visione moderna e il suo hobby preferito: «la conversazione si è quindi concentrata sulla fotografia (non è solo un ammiratore di questa arte, ma è lui stesso un abile fotografo)».

Tra gli altri, va citato il colonnello Thomas Holbein Hendley, ufficiale medico britannico con la passione per l’arte indiana che ha descritto la collocazione delle stanze per il disegno e la fotografia (Tasveerkhana) con la camera oscura, nell’ala adiacente al Chandra Mahal, tra la residenza privata e il complesso del City Palace. Sawai Ram Singh eseguiva personalmente ogni passaggio della tecnica fotografica: messa in posa, inquadratura, scatto, sviluppo e stampa.
Nel suo diario di gennaio/agosto 1870 appunta momenti particolarmente significativi: il 1 gennaio scrive «alle 11 ho fotografato il Duca di Edinburgo, sono tornato a casa e ho mangiato», il 14 gennaio a Calcutta visita il negozio di fotografia vicino a Brosky, il 4 febbraio è ad Agra dove fotografa il Taj Mahal, il 27 marzo scrive «sulla via del ritorno ho fotografato un cavallo», il 23 e 24 maggio si dedica alla stampa, in quei giorni fotografa sahib e dignitari indiani, tra cui Nawab Faiz Ali Khanji e Ibadullah Khan.

MIX DI IMMAGINARI
La mostra A reflective oeuvre. The Pioneering Photographs of Maharaja Sawai Ram Singh II ripercorre, attraverso la stampa digitale dei fragili negativi al collodio su lastra di vetro, i diversi sguardi di questo interessante personaggio, mettendo in luce anche aspetti più inesplorati, come la sua attitudine a rifotografare molte opere d’arte, a partire dalla stampa raffigurante la Madonna Sistina di Raffaello conservata nella Gemäldegalerie Alte Meister di Dresda fino alle miniature moghul. Un modo per dichiarare la propria ammirazione per l’opera di artisti del passato e del presente.
Quanto alla sensibilità per la bellezza femminile, è nota l’attenzione che il maharaja ha dedicato alle donne dello zenana (ala del palazzo riservato alle donne): mogli, paswaan (in particolare la favorita Ram Sukee ritratta in diverse pose), semplici concubine, principesse e nobili di vario rango, che mai prima di allora erano state fotografate.
Una visione di «normale» quotidianità distante dall’immaginario occidentale pieno di pregiudizi e che, proprio attraverso la fotografia, sottolinea la dignità dei personaggi ritratti. Donne in sari che talvolta posano davanti al fondale dipinto o poggiano i piedi nudi che lasciano intravedere le cavigliere sul tappeto persiano, circondate da arredi vittoriani: oggetti come il prezioso orologio da tavolo con i due putti rimanda ad un gusto in cui l’oriente cede alla fascinazione per le modernità dell’occidente.
Sawai Ram Singh mette in posa anche i cani della corte (un centinaio d’anni prima di William Wegman), perfettamente a loro agio su quelle stesse sedie imbottite retrò dove lui stesso poggia il fondoschiena. La luce naturale non è meno interessante per il principe-fotografo che, durante i suoi viaggi, ha sempre con sé la pesante attrezzatura fotografica: è autore delle vedute di Jaipur e Amber, Calcutta, Agra, Delhi, Mathura, Benares… Il suo archivio contiene anche numerosi ritratti realizzati all’esterno del palazzo agli ospiti occidentali in visita al palazzo reale, tra battute di caccia e performance in costumi teatrali. Tra le altre passioni del marahaja c’è anche il teatro, fu lui ad aprire il Ram Prakash Theatre di Jaipur. Una vita intensa che lo vide molto attivo anche dal punto di vista politico con l’introduzione di significative riforme.

Alla sua morte, come era d’uso, le sue stanze furono chiuse, anche quella della fotografia con l’attrezzatura e leimmagini conservate nelle scatole che se all’inizio venivano spolverate, poi furono dimenticate e mai più aperte. Un oblìo durato quasi un secolo: la prima scoperta di una parte cospicua del fondo, infatti, è datata 1978. Tre anni dopo, altro prezioso materiale venne alla luce. Oggi, grazie al lavoro di restauro, catalogazione e digitalizzazione del Maharaja Sawai Man Singh II Museum City Palace di Jaipur che conserva l’archivio del maharaja (6050 stampe, 105 album e 1941 negativi su vetro) queste immagini tornano a raccontare storie di un mondo che non c’è più. Ancora una volta la fotografia è lo specchio di una memoria fragile, di cui è necessario prendersi cura.

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