L’annuncio della formazione di un sindacato dei lavoratori di Alphabet – la società madre di Google – ha avuto una forza prorompente nella Silicon Valley, le cui aziende sono notoriamente e storicamente allergiche a tutte le forme di contrattazione organizzata.

IL SINDACATO NEONATO si chiama Alphabet Workers Union ed è composto allo stato attuale da alcune centinaia di progettisti del codice che fa funzionare le piattaforme del colosso di Mountain View. Appena una frazione, certo, degli oltre 260.000 dipendenti e contractor della multinazionale dei dati e pertanto una breccia importante nella barriera che Silicon Valley ha finora eretto compatta contro sindacati di ogni tipo.

In un corsivo pubblicato lunedì sul New York Times, Paul Kohl e Chewy Shaw, rispettivamente presidente e vicepresidente del nuovo sindacato organizzato in gran segreto (e associato ora alla confederazione americana dei lavoratori della comunicazione, Cwa), hanno scritto: «Alphabet è una società potente, responsabile per vasti settori di internet. I suoi servizi sono usati da miliardi di persone in tutto il mondo. Ha la responsabilità di favorire il bene pubblico. La responsabilità nei confronti di migliaia di dipendenti e miliardi di utenti di rendere il mondo un posto migliore. Come lavoratori di Alphabet possiamo contribuire a costruire quel mondo».

IL TONO DEL MANIFESTO di Kohl e Shaw è quello di un’organizzazione votata meno alle tradizionali vertenze economiche e più a questioni di qualità del lavoro e di «coscienza», come assicurare minimi sindacali a impiegati di società appaltatrici anche internazionali e contractor esterni che sono esplicitamente invitati ad iscriversi accanto agli impiegati. Gli organizzatori hanno parlato di «piattaforma per l’attivismo» all’interno dell’azienda, e il sindacato è espressione di una militanza ricorrente a Google e nella Valley, specie attorno a questioni di «diversità» discriminazione nella paga, e molestie sessuali.

NEL 2018 OLTRE 20.000 lavoratori di Google sono stati protagonisti di una sciopero in seguito ad alcuni episodi di molestie risolte senza conseguenze penale ed anzi con ricche buonuscite per gli accusati.

Altre proteste si sono registrate contro la fornitura di tecnologie a dipartimenti statali come il Pentagono e il Border patrol incaricato delle politiche anti immigrati di Trump (due impiegati che avevano contestato gli appalti sono stati licenziati nel 2019).

OGGETTO DI RIPETUTE CRITICHE interne è stata la disponibilità dell’azienda ad adattare i motori di ricerca alle richieste di censura da parte della Cina.
Una serie di istanze «etiche» tornate recentemente alla ribalta della cronaca in seguito al licenziamento dell’esperta di intelligenza artificiale Timnit Gebru che aveva pubblicato uno studio che rilevava una parzialità dei sistemi AI Google nei confronti delle minoranze etniche. Un allontanamento che ha solo accentuato le accuse di parzialità e di discriminazione nei confronti di una studiosa di colore.

Scrivono Kohl e Shaw nel loro editoriale: «Per troppo tempo a Google ed altre consociate Alphabet, le nostre istanze sono state ignorate dai dirigenti. I nostri capi hanno collaborato con regimi repressivi . Hanno progettato intelligenza artificiale per l’esercito e tratto profitto da un gruppo fautore di odio. Non hanno implementato le riforme necessarie per incrementare l’assunzione di minoranze etniche».

IL CATALOGO DI RECLAMI esprime un idealismo che mostra segni di saldarsi con le istanze della «manovalanza» digitale come quelle di lavoratori della gig economy e di colossi come Amazon.

L’anno scorso si sono registrati piccoli successi sindacali in aziende come Kickstarter (crowdfunding) e Glitch (sviluppo di app) ed è attualmente in corso una campagna di organizzazione per sindacalizzare un magazzino Amazon in Alabama. Allo stesso tempo si registra una nuova spinta politica per regolare un’industria che in pratica ha – finora – fatto il bello e cattivo d tempo.

A NOVEMBRE UN REFERENDUM (lautamente finanziato dalla Silicon Valley) ha abrogato la legge varata l’anno scorso in California che avrebbe imposto a Über e Lyft e agli altri giganti del delivery e del ridesharing di assumere autisti e rider con contratti a tempo indeterminato.

Una vittoria che le piattaforme hanno potuto celebrare solo per un paio di settimane dato che un mese dopo è arrivata la doccia fredda del caso antitrust del ministero di giustizia che il 9 dicembre ha annunciato una causa contro la sistematica strategia di Facebook per «acquisire rivali con lo scopo di inibire la concorrenza e monopolizzare i social media».

Quando non è stato possibile il takeover, ha sostenuto il Dipartimento di giustizia, Facebook avrebbe intenzionalmente rovinato potenziali concorrenti negando loro accesso alla propria piattaforma e gli strumenti di promozione e marketing che controlla.

Quella causa, in cui sono costituiti parte civile anche i 50 stati individuali, è diretta, seppur in minore misura, anche contro le pratiche anti concorrenziali di Google. Si delineano insomma forse le prime crepe nel monolitico oligopolio del complesso industriale dei dati, quel agglomerato senza precedenti di capitale della sorveglianza e monopolio tecnologico che sta plasmando in modo intimo e pervasivo la società del presente, e in cui una minuscola minoranza di capitalisti influisce su aspetti fondamentali della convivenza fuori della portata della politica.

Con quel misto di messianesimo tecnologico e utopismo cooptato dai pionieri della rete Google aveva inizialmente adottato «Don’t Be Evil» (non fare del male) come slogan aziendale.

I fondatori del nuovo sindacato hanno dichiarato di voler tornare a allo spirito di quell’aspirazione – prima che venisse seppellita da una montagna di miliardi. «Vogliamo che Alphabet sia una azienda in cui i lavoratori hanno qualcosa da dire sulle decisioni che influiscono su di noi e sulle società in cui viviamo».