La «people machine» della democrazia Usa
GEOGRAFIE «Simulmatics», tra storia e politica l’inchiesta di Jill Lepore, per Rizzoli. Le vicende dell’azienda che già alla fine degli anni ’50 immaginò la società americana in base ai Big data. Matematici e scienziati sociali liberal riuniti intorno a un ex pubblicitario: lavorarono per la campagna di Kennedy nel ’60 ma anche per il Pentagono a Saigon.
GEOGRAFIE «Simulmatics», tra storia e politica l’inchiesta di Jill Lepore, per Rizzoli. Le vicende dell’azienda che già alla fine degli anni ’50 immaginò la società americana in base ai Big data. Matematici e scienziati sociali liberal riuniti intorno a un ex pubblicitario: lavorarono per la campagna di Kennedy nel ’60 ma anche per il Pentagono a Saigon.
Nel rapporto tra Bunny Watson (Katharine Hepburn) e Richard Sunner (Spencer Tracy) sarà «una macchina» a complicare tutto. Prima che l’amore trionfi, l’arrivo di due computer, o «cervelli elettronici» come si era più propensi a definirli all’epoca, negli uffici della Compagnia Radiofonica Federale di Lower Manhattan, rischierà infatti di contrapporre in modo insanabile Bunny, una donna emancipata e battagliera, responsabile del settore Quesiti – che deve fornire risposte ad ogni sorta di domande degli ascoltatori – e Richard, l’ingegnere elettronico che guida il progetto dopo aver inventato un innovativo sistema di «calcolo, ricerca e memoria elettromagnetica». L’interrogativo che fa da sfondo alla commedia romantica La segretaria quasi privata (Desk Set nell’originale) diretta da Walter Lang, e tratta dall’omonima opera andata in scena a Broadway un paio d’anni prima, non potrebbe essere più attuale: può una macchina rimpiazzare un uomo? L’unica nota apparentemente bizzarra è che si tratta di un film del 1957 che indica, seppure in modo giocoso, come già all’epoca una tale preoccupazione fosse se non diffusa perlomeno presente tra gli americani.
UTILIZZATI già durante la Seconda guerra mondiale, quando gli Alleati si erano serviti del lavoro degli ingegneri per calcolare le traiettorie dei missili e decifrare i messaggi in codice del nemico, le macchine elettroniche in grado di elaborare una vasta messe di dati in un breve spazio di tempo, avevano infatti iniziato a giocare un ruolo nella società statunitense già all’inizio degli anni Cinquanta. Con una novità non certo secondaria: ciò che si era appreso durante lo sforzo bellico, sarebbe stato messo questa volta a disposizione di progetti politici, economici e sociali. Iniziative in grado di anticipare per molti versi il contesto attuale di presenza, quando non di ingerenza delle nuove tecnologie non solo nella nostra vita quotidiana, ma anche nelle nostre scelte. Esemplare, da questo punto di vista, la vicenda raccontata da Jill Lepore in Simulmatics (Rizzoli, pp. 456, euro 24).
Con il piglio narrativo e la determinazione che le sono proprie, ha già firmato un’affascinante storia degli Stati Uniti dal punto di vista delle minoranze – Queste verità, Rizzoli, 2020 -, la studiosa di Harvard, che collabora abitualmente con il New Yorker, ricostruisce nel libro l’ascesa e la caduta «dell’azienda che inventò il futuro». Perché la Simulmatics Corporation, fondata nel 1959 dall’ex pubblicitario Ed Greenfield, che aveva immaginato che quella innovativa fusione tra i termini «simulation» e «automatic» avrebbe portato fortuna alla sua creatura, non proponeva di utilizzare i computer per modificare in qualche modo le abitudini e gli stili di vita del momento, quanto piuttosto per immaginare, se non plasmare, quelli che sarebbero venuti in seguito. Greenfield era un mad man, per dirla con il titolo di una celebre serie tv, cresciuto nelle agenzie di pubblicità di Madison Avenue, nell’East Side di New York, interessato prima di tutto a fare buoni affari, ma era anche un liberal, per altro figlio di un agente assicurativo di orientamento comunista, desideroso di impegnarsi per migliorare le condizioni del proprio Paese.
NELL’AMERICA che stava uscendo a fatica dalla stagione del maccartismo, l’idea era quella di intrecciare la rapidità di calcolo dei computer, su tutti quelli già operativi dell’Ibm, con le scienze sociali, cercando di interpretare le tendenze in atto, coglierne i possibili sviluppi e «migliorarne» se possibile gli esiti. Non a caso, al centro dell’attività della Simulmatics, che riuniva intorno al proprio fondatore matematici, ingegneri e scienziati sociali, ci fu fin dall’inizio la cosiddetta «people machine», un «calcolatore di persone» in grado di «leggere» la realtà del Paese in modo nuovo. La tecnica era nota: interviste sul campo, indagini presso alcuni settori specifici di cittadini, sondaggi su tematiche precise. Il tutto veniva però analizzato in modo nuovo in base alle risorse tecnologiche all’epoca all’avanguardia.
Così, ingaggiati dal Comitato elettorale del Partito democratico, gli esperti della Simulmatics, indicarono come a fare potenzialmente la differenza tra il vicepresidente repubblicano uscente, il californiano Richard Nixon, e il senatore democratico del Massachusetts John Fitzgerald Kennedy, sarebbero potuti essere gli elettori afroamericani che Kennedy poteva sperare di conquistare se avesse espresso un sostegno meno timido alla causa dei diritti civili. Anche se, come sottolinea Jill Lepore, non era forse necessario indagare troppo a fondo per capire che i nuovi equilibri della politica americana sarebbero derivati dal peso dell’elettorato nero, «la predizione» della Simulmatics si era rivelata vincente e, dopo la vittoria di Kennedy nelle presidenziali del 1960, l’azienda di Greenfield divenne il simbolo di come il Paese stava cambiando.
HARPER’S MAGAZINE parlò della people machine come «la bomba atomica delle scienze sociali» e tutti capirono come, dopo i lunghi anni della radio, erano ormai la tv e i computer, con la loro capacità di raccogliere le informazioni ma anche di orientare i cittadini, a dominare l’orizzonte della politica americana. Per quel piccolo gruppo che aveva annunciato per molti versi il futuro, si apriva una fase di forte crescita che avrebbe però anche messo in luce i rischi di un rapido crollo.
Nel 1962 il New York Times decise di servirsi dei dati elaborati in tempo reale dall’azienda per ogni nuovo appuntamento elettorale – era la prima volta che accadeva; seguirono i contratti con alcuni grandi marchi commerciali interessati a saggiare il terreno per i loro prodotti; quindi, tra il 1963 e il 1965, malgrado la contrarietà di alcuni membri del gruppo della prima ora, la Simulmatics accettò la proposta del Dipartimento della difesa di svolgere delle ricerche in Vietnam nell’ambito della strategia della «counterinsurgency», il Pentagono intendeva servirsi di quei dati per comprendere gli umori della società vietnamita e «fermare l’avanzata del socialismo»: all’epoca l’azienda disponeva di sedi a Washington, New York, Cambridge e Saigon.
Infine, tra il 1967 e il 1968 le autorità federali, alla Casa Bianca sedeva ancora Lyndon B. Johnson, fautore dei programmi di sviluppo della cosiddetta «Great society», ma dietro l’angolo già emergeva l’ombra di Richard Nixon, si servirono della Simulmatics per vagliare l’opinione della popolazione nera delle aree urbane in vista di nuove possibili esplosioni sociali, la settimana di rivolta di Watts del 1965 che aveva fatto registrare oltre trenta vittime avrebbe annunciato quelle di Newark e Detroit, di due anni successive. Le analisi della Simulmatics confluiranno in parte anche nel famoso rapporto della Commissione Kerner, oltre 462 pagine che fotografavano la terribile situazione in cui versava una parte considerevole della popolazione afroamericana ad oltre un secolo dalla fine della Guerra di secessione che aveva posto fine alla schiavitù.
Per gli inventori della «people machine» l’avventura stava però volgendo al termine. Dopo un pugno di anni segnati pesantemente da un buco di bilancio, da una crisi ideale e, non ultimo, dalle conseguenze dell’alcolismo di Greenfield, nel 1970 sarebbe sopraggiunto il fallimento e un lungo oblio sull’intera vicenda scalfito solo ora grazie alle ricerche di Jill Lepore. Inoltre, l’avvicinamento agli ambienti della Difesa, mentre nel Paese cresceva l’opposizione alla guerra del Vietnam, aveva messo in crisi la propensione riformista del debutto. Ithiel de Sola Pool, un sociologo che aveva studiato i sistemi di propaganda nazisti e sovietici, docente alla Stanford University e al Massachusetts Institute of Technology, divenuto una delle figure più note della Simulmatics, sarà contestato dagli studenti di Cambridge e accusato di essere «un criminale di guerra» per il coinvolgimento dell’azienda nel conflitto nel Sud-est asiatico. Seguendo un itinerario comune a molti intellettuali anti-stalinisti dell’epoca, Pool si sarebbe in seguito avvicinato all’amministrazione Nixon e quindi al circuito dei neoconservatori, riemerso in primo piano a decenni di distanza durante la presidenza di George W. Bush.
LO SPIRITO LIBERAL che aveva guidato i loro primi passi si era andato esaurendo, mentre per gli Stati Uniti si annunciavano i primi segni di quella controrivoluzione conservatrice che avrebbe dominato i decenni a venire. Ma, in quella sfida, i buoni propositi avevano camminato sempre accanto alla propensione alla distopia, all’idea di modellare il mondo, a partire dalla società americana, secondo i propri propositi. Così, il lascito profondo e inquietante di quell’esperienza emerge oggi, in una stagione dominata dall’uso dei Big data in ogni campo della vita pubblica. «Possiamo riconoscere l’eredità della Simulmatics celarsi dietro lo schermo di ogni dispositivo informatico – scrive Lepore nelle sue conclusioni -; è nell’analisi predittiva, nei modelli di simulazione what-if, nella scienza che studia i dati comportamentali. Sebbene sia fallita, la Simulmatics ha contribuito a inventare il nostro secolo malato di dati e dalle tendenze totalitarie».
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