Europa

La partita europea di Meloni tra il Ppe in pressing e le sirene sovraniste

Ursula von der Leyen e Giorgia Meloni foto AnsaUrsula von der Leyen e Giorgia Meloni – foto Ansa

Commissione Ue Per ottenere un ruolo forte per Fitto la premier dovrà arrendersi ai popolari

Pubblicato 2 mesi faEdizione del 1 settembre 2024

Se vuole rientrare il quel grande gioco europeo dal quale è stata sbalzata brutalmente fuori due mesi fa Giorgia Meloni deve rispettare due consegne rigide, esposte in forma del tutto esplicita dal presidente del Partito popolare europeo Mafred Weber nella sua escursione romana: tenersi avvinghiata all’azzurro Tajani, perché il garante per il Ppe di un governo italiano per molti versi ancora sotto osservazione occhiuta è lui, e tenere ai margini Salvini, perché la bestia nera non solo dei Popolari ma dell’intero establishment europeo è lui. O meglio sono i Sovranisti di Orbán, Le Pen e appunto Salvini.

La confusa vicenda del vertice di maggioranza di venerdì scorso, tanto atteso quanto deludente negli esiti, si capisce solo se si guardano le cose in questa prospettiva. Sul tavolo c’era una lista chilometrica di problemi che la maggioranza e il governo dovranno risolvere ma la posta grossa era europea. Perché già da un pezzo sono gli equilibri europei che sovradeterminano quelli dei vari Paesi membri.

Era dunque prevedibile che nonostante le tante divisioni interne, l’incidente si verificasse proprio sul tema in questo momento più nevralgico per l’Europa, la guerra in Ucraina. Il comunicato della Lega, quello che metteva nero su bianco il no dell’Italia agli attacchi ucraini su suolo russo, corrisponde in realtà all’opzione comune dell’intera maggioranza. Nella sostanza non si trattava affatto di una forzatura. Nella forma invece sì. Aveva il sapore di una sfida aperta contro la presidente von der Leyen, paladina del diritto dell’Ucraina a difendersi anche attaccando. Bruciava alle spalle ponti che devono invece restare intatti, perché tutti sanno che il no di oggi può rovesciarsi in un sì domani, a seconda delle circostanze e dell’esito delle decisive elezioni americane. Siglava apertamente il peso della Lega nelle scelte del governo e per la premier non c’è oggi nulla di peggio perché più pesa il Carroccio a Roma, meno pesa Roma a Bruxelles.

La partita sulle deleghe che saranno attribuite a Raffaele Fitto, che saranno rilevanti, e sulla eventuale vicepresidenza esecutiva, oggi molto più a portata di mano di quanto non fosse appena una settimana fa, hanno una valenza concreta e una simbolica anche più importante. Devono siglare il riavvicinamento tra Meloni e il Ppe dopo lo strappo di giugno, chiudendo la tormentata vicenda con un passo della leader di FdI e dei Conservatori deciso, anche se non ancora definitivo, verso i Popolari e sempre più distante dai Patrioti. Per questo la premier si è affrettata a bloccare il blitz della Lega sterilizzando più di come non si poteva il comunicato sull’Ucraina ma forse per lo stesso motivo, oltre che per concrete questioni di spesa, ha anche tagliato fuori dalle priorità della manovra il cavallo di battaglia di Salvini, cioè le pensioni.

Del resto, dopo un’estate di guerriglia a tempo pieno su carcere, cittadinanza e autonomia differenziata, il leader azzurro Antonio Tajani non ha alzato la voce su dette faccenduole, ma lo ha fatto invece per rivendicare il suo ruolo essenziale nella risoluzione sin qui positiva della vicenda del commissario europeo. Lo scarto abbassa la posta del ministro degli Esteri solo in apparenza: di fatto Tajani, così facendo, ha chiarito come solo se lui avrà molta più voce in capitolo non su qualche dossier specifico ma su tutto i rapporti con il Ppe, cioè in buona misura con la Ue, fileranno lisci.

Ci si può e deve aspettare che, se la partita della nuova Commissione si concluderà in modo per l’Italia soddisfacente o molto soddisfacente, Giorgia Meloni canterà vittoria, irriderà quanti avevano denunciato l’irrilevanza dell’Italia in Europa. È la propaganda e chiunque al suo posto farebbe lo stesso. Però la realtà è opposta. Se ci sarà riconciliazione sarà perché la premier si è rassegnata a fare proprio quel che voleva evitare: spostarsi dal campo vasto ma rinchiuso nel ghetto del sovranismo europeo a quello del Ppe e della sua area di diretta influenza.

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