Intervistata di buon mattino Giorgia Meloni sembra resuscitare il confronto con la rivale Elly Schlein: «Occasione perduta: ha dato fastidio a qualcuno. Lo faremo in altri modi». E tutti a scervellarsi su quale social possa ospitare il fatidico faccia a faccia.

In realtà la premier è soprattutto preoccupata dalla necessità di tenere alta la tensione pre-elettorale per evitare una corsa all’astensione. Gli «altri modi» dovrebbero essere solo un tradizionalissimo confronto a distanza, per il tramite di comizi e dichiarazioni.

Non precisamente la novità del secolo. Sempre per allertare il proprio elettorato la premier, non a torto, segnala che gli italiani possono anche non occuparsi dell’Europa «ma l’Europa si occuperà di noi». Meglio per l’elettorato potenziale della destra tenere la scheda pronta se vuole «un’Europa che si occupi di alcune grandi questioni e lasci il resto agli Stati nazionali». La sua formula per essere allo stesso tempo europeista e antieuropeista.

Il problema della presidente del consiglio è proprio che non può rinunciare a nessuna delle sue due facce. Lo si è capito nel videomessaggio domenicale alla convention di Vox a Madrid, uno sforzo di virtuosismo equilibrista. Come premier di un Paese con problemi di conti pubblici da far tremare le vene ai polsi non può permettersi di restare tagliata fuori dalla scelta della presidenza e della composizione della prossima Commissione europea.

Dunque, se il nome scelto dal Consiglio e poi sottoposto al voto dell’europarlamento sarà per lei appena potabile, lo voterà anche a braccetto con i socialisti e senza l’appoggio non solo dei sovranisti radicali di Identità e Democrazia ma neppure di buona parte dei suoi Conservatori, dal Pis polacco alla stessa Vox. Lo dice tra le righe: «Importante non è il nome del presidente. La vera sfida è costruire una maggioranza diversa da quella innaturale che abbiamo visto negli ultimi cinque anni». Dunque una maggioranza formata dai partiti di centrodestra che sono «potenzialmente alleabili: voglio provare a fare in Europa quello che è stato fatto in Italia. Sfida difficile ma che secondo me si può centrare».

Giorgia Meloni
Importante non è il nome del presidente. La sfida è costruire una maggioranza diversa da quella innaturale che abbiamo visto negli ultimi 5 anni

Meloni per prima sa che quella possibilità è un miraggio se ci si riferisce alla presidenza della Commissione. Sino alle prossime presidenziali per Marine Le Pen è escluso votare con Emmanuel Macron. Il paletto inaggirabile, le posizione sulla guerra in Ucraina e su Putin, rendono poi l’AfD tedesca, ma in buona misura anche la Lega, partiti paria in Europa.

Su quel fronte palazzo Chigi ha dunque già deciso di procedere comunque. Del resto cinque anni fa le parti erano rovesciate. Allora il Pis polacco votò per Ursula von der Leyen e FdI contro: perché a fare la differenza non è l’ideologia ma la collocazione al governo o all’opposizione. Sottolineare che il nome del presidente non ha poi tutta questa importanza è un mettere le mani avanti.

Non significa che la premier italiana non miri davvero a un’Europa tutta rivolta a destra, nazionalista tranne che in alcune questioni «dove gli stati nazionali da soli non sono competitivi», blindata contro l’immigrazione, reazionaria, anzi «cristiana e fondata sulla famiglia», nella cultura egemone. M

a quella è una sfida di più lungo periodo: prima è necessario che Marine Le Pen porti a termine la “normalizzazione” in corso del suo Rassemblement national diventando atlantista, che la Lega torni a essere, con o senza Matteo Salvini, quella europeista a cui mira il Carroccio del Nord, che la stessa AfD si decida ad abiurare i capitoli più inaccettabili del suo programma.

Però un successo elettorale della destra, dei Conservatori e degli stessi sovranisti, è necessario subito. Solo se il vento di destra spirerà davvero forte la premier italiana avrà gli strumenti per condizionare il Consiglio e spingerlo a indicare una candidatura per la presidenza votabile per lei e per almeno una parte dei Consevatori: von der Leyen, Roberta Metsola, Manfred Weber. O forse addirittura Antonio Tajani.