La «normalità» della tragedia nel silenzio dei testimoni
Venezia 75 Nel concorso di Orizzonti «Sulla mia pelle» di Alessio Cremonini. La settimana di agonia di Stefano Cucchi, morto in carcere nel 2009
Venezia 75 Nel concorso di Orizzonti «Sulla mia pelle» di Alessio Cremonini. La settimana di agonia di Stefano Cucchi, morto in carcere nel 2009
Durissimo e preciso nel colpire là dove deve andare a segno senza deviazioni di percorso Sulla mia pelle di Alessio Cremonini accompagna con rara umanità fino alla morte la settimana di agonia di Stefano Cucchi. È noto il caso della morte in carcere del giovane geometra arrestato per detenzione, spaccio e uso di stupefacenti, il più conosciuto dei 176 casi di decessi in carcere nel 2009.
Presentato in concorso nella sezione Orizzonti il primo film italiano in programma alla Mostra è stato accolto con grande consenso ed emozione, asciutto e convincente, un crescendo drammatico di pietas e di denuncia.
Il rigore del film è costruito sugli atti dei processi e sull’impostazione che si mantiene apparentemente distante da accuse dirette, allargando il discorso da un eclatante caso specifico a una più generale denuncia della violazione dei diritti umani. In questo senso colpisce la maturità di una costruzione cinematografica così capace di mettersi in diretto contatto con un pubblico internazionale.
Il film procede con interventi progressivi di rara abilità nel sintetizzare inizialmente i tratti della personalità del giovane, poi il crescendo drammatico per ellissi, senza interventi declamatori, senza sbavature, senza creare artificiosamente vittime e carnefici, nella normalità della tragedia. Una quantità di testimoni potrebbe dare una spiegazione ai lividi e ai dolori lancinanti del ragazzo, che al contrario come per un’omertà da quieto vivere, per una legge non scritta e parallela dietro le sbarre, passano per la normalità. Il regista dice che di questi testimoni muti ne sono stati contati ben 140 venuti a contatto con il detenuto in «custodia» cautelare, ognuno di loro chiuso nell’ambito della sua funzione, avvocati, giudici, detenuti, medici, infermieri, superiori, piantoni o assistenti che fossero.
Più che un’interpretazione quella di Alessandro Borghi per Cucchi sembra essere un pressante desiderio di riportarlo in vita tanta è la forza che trasmette pur nel raccontarne la lenta agonia, una rara immedesimazione fatta di ruvido calore, di rabbia impotente che nella seconda fase del film diventa una complessa veglia funebre. L’attore dice di essere stato preso da una sana paura alla proposta di interpretare Stefano Cucchi di cui da anni seguiva la vicenda, «una storia che doveva essere raccontata».
Nel rigore di una sceneggiatura che scandisce gli eventi e i giorni Cucchi è costretto sempre di più nel suo isolamento, nel chiuso delle celle, delle stanze di ospedale, della cecità di chi gli si avvicina, dei familiari tenuti lontani dalle ferree procedure carcerarie e perfino dalla incomprensibile assenza dell’avvocato. Perde un po’ alla volta ogni contatto che non sia quello del dolore che prova.
Questo isolamento è descritto alla perfezione e anticipato dalla dolorosa esperienza in comunità, dalla sofferenza procurata ai familiari (tutto interiorizzato in Max Tortora) e dalla durezza della sorella (Jasmine Trinca entrata rispettosamente in un’area privatissima) sviluppa la qualità del racconto tutto fatto di equilibrio e di misura, cosa rara trattandosi di una denuncia di violazione dei diritti che si può applicare a varie situazioni non solo nazionali.
Il regista che ha esordito con Border e prima ancora è stato assistente di Ettore Scola e sceneggiatore per Franco Giraldi e Saverio Costanzo, dice: «Sono un garantista, i film non sono un’aula di giustizia. La mia è la storia di un ragazzo che ha passato giorni infernali, degno del rispetto che garantisce la Costituzione». Per realizzarlo sono state studiate (non lette, ma studiate ci tiene a precisare) diecimila pagine di verbali.
E non è facile fare diventare carne viva la carta: «Con grande umiltà e spirito francescano, senza pregiudizi abbiamo cercato di capire cosa era successo a Stefano. Le vittime non ci sono più, loro non possono rispondere e allora diventi come un archeologo che cerca le spiegazioni nelle testimonianze, nello studio comparato di diverse opinioni. Tutti hanno parlato – dice – ma la cosa che mi ha colpito di più è l’impossibilità di difendersi, di parlare, da parte della vittima.» Il film nasce dal desiderio di strappare Cucchi alla fissità di quelle terribili, ben conosciute fotografie che lo ritraggono sul letto di morte, e ridargli la parola.
Con ostinazione e conoscendo l’ambiente lui avrebbe ripetuto ancora una volta di «essere caduto dalle scale».
Sulla mia pelle uscirà il 12 settembre nelle sale e in contemporanea sulla piattaforma streaming Netflix in 140 paesi.
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