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La non-vita nei rifugi di Lyman che resiste solo con gli aiuti

La non-vita nei rifugi di Lyman che resiste solo con gli aiutiL’interno di una casa a Lyman – Sabato Angieri

Reportage Il racconto dalla città in Donbass. Non c’è più alcun presidio medico né scorte di cibo, ci si nasconde nelle cantine, tra rabbia e macerie. Nelle chat su Telegram gli orari della consegna: tre pacchi di pasta, qualche scatoletta

Pubblicato più di 2 anni faEdizione del 3 maggio 2022

«Non importa se a bombardare sono i russi gli ucraini o i cinesi – racconta Yura – Queste macerie erano la mia casa, ho lavorato tutta la vita per costruirla». L’ultimo bombardamento su Lyman ha colpito il quartiere di Yura e la sua abitazione ora è semi-distrutta.

NELLE CANTINE del palazzo a poche decine di metri si rifugiano tutti i residenti della zona, quelli che non vogliono andarsene nonostante l’esercito russo sia a una decina di chilometri. Lyman si trova circa 40 chilometri a nord di Kramatorsk, la capitale dell’oblast di Donetsk, o almeno di quella parte ancora in mano all’esercito ucraino.

C’è rabbia, una rabbia che nasce dalla paura e dall’esasperazione di chi da settimane vive in una cantina e sente continuamente i boati dell’artiglieria. Ai bambini, i primi giorni, facevano fare dei disegni sul marciapiedi con i pastelli, qualcuno si intravede ancora, ora non li fanno neanche più uscire e i disegni sono su fogli bianchi, a penna.

Boris, un signore di mezza età ce ne mostra uno, quasi commuovendosi quando indica un rettangolo con dei quadratini dentro, «il nostro palazzo», una specie di freccia, «un missile», che corre tra tanti rettangoli e sul retro del foglio un cuore con scritto «mamma» al centro. È di sua figlia di tre anni che si trova nel rifugio mentre parliamo.

«A MEZZOGIORNO di sabato hanno colpito il centro civico e siamo rimasti a casa – spiega Boris – Poi durante la notte i boati sono diventati sempre più forti, hanno iniziato a tremare le finestre e alle quattro siamo scesi con mia moglie e i bambini». Non sa quanto resteranno sottoterra, «finché i bombardamenti continueranno così forte».

Nelle cantine non hanno nulla, solo una lampadina appesa al muro con un chiodo piegato e il filo pendente che un ragazzo ha fatto passare per tutti i piccoli locali che una volta servivano da magazzino. Tuttavia nel loro quartiere le linee del gas e dell’elettricità sono ancora piuttosto stabili e quando i colpi dell’artiglieria si attenuano qualcuno sale e cucina il più possibile per riportare cibo nel rifugio. «Stamattina mia moglie ha provato, ma appena ha messo il naso fuori hanno colpito di nuovo ed è quasi morta di paura».

In mattinata la preoccupazione principale è per la mamma di Yura, una signora di novant’anni disabile. «È per lei che sono rimasto qui – spiega Yura – Mia moglie e i miei figli sono in Russia da prima della guerra perché lì i salari sono leggermente più alti e almeno riescono a sopravvivere».

DA QUANDO sabato hanno bombardato due volte l’edificio della Croce rossa, a Lyman non è rimasto quasi più nessuno a dare supporto medico ai civili e il presidio medico più vicino è a decine di chilometri, mentre l’ospedale è a Dnipro, quattro ore di macchina. La mamma di Yura è stata trasportata da un’ambulanza militare in tempo per essere curata adeguatamente.

«Sai cosa fanno i russi? – spiega l’uomo arrabbiato mentre un piccolo gruppo di vicini prova a calmarlo – Usano i missili nuovi, quelli costosi, per colpire le postazioni dell’esercito ucraino più distanti; gli altri, quelli vecchi che non valgono niente, li sparano lo stesso e colpiscono noi, le nostre case, la nostra gente». Yura ha un nipote nell’esercito ucraino, è a nord della stessa città ma da quasi due settimane non si hanno notizie di lui.

Mentre ci spostiamo alla ricerca del centro civico i bombardamenti si intensificano e siamo costretti a nascondere la macchina sotto degli alberi e a precipitarci in un rifugio. «Chi è?», urla una voce che viene da chissà dove nel buio della cantina. «Giornalisti», rispondiamo. «Chiudete la porta», urla la voce.

QUELLO CHE SEMBRAVA un sottoscala è in realtà un dedalo di corridoi bui rischiarati di tanto in tanto da una luce fioca che filtra dalle porte di legno delle cantine ora abitate. Svetlana, una signora di circa cinquant’anni, non ne può più e sbotta: «Gli ucraini non vogliono finirla questa guerra. Sono loro che non vogliono la pace, noi non ne possiamo più di vivere così». Inizia a discutere con il traduttore che gli chiede astioso perché incolpa il governo locale e non i russi.

Alla domanda «ma non è Putin che ha invaso il vostro Paese?», lei risponde che il presidente russo «è stato costretto». Svetlana si innervosisce, cita numeri ed episodi e quando le chiediamo da chi ha avuto quelle informazioni risponde che le vede tutti i giorni sui canali russi in tv, poi esplode in un pianto che è un misto di nervosismo, rabbia e frustrazione.

Anche qualcun altro è arrabbiato con l’esercito ucraino, non per una questione ideologica, per le tattiche che sta adottando. Secondo Philip, «gli ucraini usano mezzi veloci, si posizionano lungo le strade urbane tra i palazzi e sparano da qui; quando i russi identificano la posizione rispondono al fuoco ma a quel punto i nostri militari sono già andati via e rimangono solo i palazzi».

I BOMBARDAMENTI si attenuano e usciamo a piedi. A un incrocio vediamo persone di tutte le età che corrono verso un furgone verde di fronte a un alimentari. È il furgone degli aiuti umanitari che il sindaco di Dnipro spedisce da un mese. Chi riesce ad arrivare in tempo prende la sua busta, dentro ci sono tre pacchi di pasta, qualche scatoletta e poco più. Igor, il capo della polizia locale, spiega che «arrivano circa seicento buste ogni giorno e in trenta minuti le distribuiamo tutte».

I residenti ricevono comunicazione dell’orario di consegna attraverso chat cittadine di Viber o Telegram, poi si precipitano qui. «Al momento a Lyman sono rimaste circa 14 mila persone, la metà dei residenti che c’erano prima dell’inizio della guerra, per il primo mese sono riuscite a sopravvivere con le loro scorte di cibo ma ora che si sono esaurite non si trova più nulla, senza questi aiuti sarebbe terribile».

All’uscita da Lyman passiamo accanto al ponte ferroviario fatto saltare in aria dagli ucraini sabato per rallentare l’eventuale avanzata russa. Si sentono i sibili e i boati a poca distanza, un militare che si accorge della nostra presenza inizia a sbracciarsi e a urlare di spostarci. Poco dopo un’esplosione più forte fa abbassare tutti. A ovest si alza una colonna di fumo e inizia una nuova raffica.

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