«La nostra identità non fa male letteralmente a nessuno, però ce la fanno pesare ogni giorno. Diciamo a governo e società: noi esistiamo. Siamo persone e come tali vogliamo essere rispettate. Come tutti gli altri cittadini». Cris ha 19 anni e regge un lembo dell’enorme bandiera trans appena partita in corteo dalla piazza romana dell’Esquilino. La tengono, la tirano, la agitano giovani e giovanissimi con identità di genere molteplici. Capelli lunghi e naturali o corti e coloratissimi. Oppure viceversa. Corpi avvolti in camicie a quadrettoni e jeans, t-shirt e gonne o top attillatissimi e vestiti a rete.

LA BANDIERA TRANS è di tre colori: celeste, rosa e bianco. I primi due rappresentano maschile e femminile. Il terzo, che è in mezzo, le persone in transizione, intersessuali o di genere neutro e indefinito. In testa ai 50 metri di stoffa c’è scritto: Protect trans youth. È il primo corteo che mette al centro specificamente i diritti della gioventù transgender. Arriva il giorno dopo il Transgender day of visibilty, festeggiato tra le mura del centro sociale romano Esc con dibattiti sulle lotte trans nel mondo del lavoro, della scuola, della sanità e musica elettronica mischiata a note di violino.

Cartello per il diritto allo studio nel corteo di Roma, foto di Giansandro Merli

ROBERTO HA 20 ANNI e usa i pronomi maschili. Una modalità di introdursi che spesso genera sorrisetti e sufficienza, quasi fosse un vezzo o un capriccio. «Chi non rispetta il nome che ci siamo scelti, chi si riferisce a noi con aggettivi diversi dal genere che sentiamo nega la nostra identità – dice – Ci umilia, ci discrimina. Per questo in tutte le scuole deve essere adottata la carriera alias». È la modalità che permette l’iscrizione nel registro e nei documenti con un nome diverso da quello anagrafico, chiamato dead name. È stata adottata da vari istituti, oltre che da alcune aziende private, ma manca una normativa nazionale. Che il corteo chiede a gran voce per mettere fine a discrezionalità e arbitrarietà.

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SUL CORTEO SPLENDE IL SOLE. Oggi è un giorno di festa. Un’occasione per «dare voce a chi non ne ha mai», «occupare gli spazi che ci negano», «farci vedere», dicono le persone scese in piazza. La maggior parte sono giovanissime. Sostenute, affiancate, protette da chi col proprio corpo ha sfidato il mondo quando era ancora più spietato di adesso. «Manifestiamo per tutelare i diritti dei più giovani. A partire da quelli all’autodeterminazione e all’istruzione. La scuola deve essere l’ambito di protezione e garanzia di tutti. Il luogo in cui ognuno ha la possibilità di rivelarsi al mondo. Negarlo significa spazzare via il diritto allo studio e le opportunità di crescere attraverso la cultura», dice Daniela Lourdes Falanga. È nata Raffaele, a Torre Annunziata, da un boss della camorra. Ha rifiutato tutto, a partire dalla cultura di violenza e sopraffazione. Il nome Lourdes è un riflesso religioso, di quando con la nonna visitava la madonna di Pompei.

Daniela Lourdes Falanga nel corteo di Roma foto di Giansandro Merli

«LE PERSONE TRANSGENDER non sono una minaccia ai diritti conquistati dalle donne. Basta discriminazioni. Anche a quelle che vengono dal mondo femminista», dice Chiara Piccoli, presidente dell’Associazione lesbica femminista italiana (Alfi). Raggruppa alcuni dei circoli che nel 2018 hanno rotto con Arcilesbica sulla linea politica, a partire dalle questioni trans.

Il corteo sfila senza cori né interventi dal camion, a ritmo di musica: Lady Gaga, Beyoncè, Raffaella Carrà versione remix. Quando arriva sotto l’Altare della patria ci sono migliaia di persone. È lì che si rompe l’argine: dal microfono escono storie di abusi impensabili per buona parte della società. Come quella di Sid che a nove anni, senza ancora sapere di essere trans, inizia a comportarsi come un bambino invece che da bambina. «Muori, ti bruciamo, ucciditi, puttana, fai paura, mi dicevano a scuola. Mi hanno spento sigarette addosso. La madre della mia fidanzata mi ha picchiato con una spranga», racconta con una rabbia che non è solo sua. Viene da molto lontano. Da violenze lunghe centinaia di anni.

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«ESISTIAMO DA SEMPRE, da molto prima che a metà del ’900 venisse coniato il termine transessuale. Abbiamo aspettato per secoli, ma adesso non ci fermate più», grida Stefano. Leonardo si commuove mentre racconta la sua esperienza. Gli altri lo abbracciano. «Vi voglio bene», «siamo bellissimi», «grazie per tutto questo» sono le frasi ripetute più spesso: mostrano le corde invisibili che stringono una comunità forgiata nella resistenza a tutto quello c’è intorno.

Gioele Lavalle, coordinatore di Gender X, parla dal camioncino, foto di Giansandro Merli

LE PAROLE SONO TRADOTTE nella lingua dei segni, grazie all’aiuto della Cgil Roma. Marilena Grassadonia (Si), a capo dell’ufficio diritti lgbt+ di Roma Capitale, parla della mobilitazione come di «una boccata d’ossigeno. Il patrocinio del nostro Comune significa: camminiamo insieme».

«Ci dicono che siamo pericolosi, ma siamo noi a subire la violenza: nelle scuole, nei tribunali, negli ospedali, dalle forze dell’ordine. Viviamo nella costante paura di essere umiliati – dice Gioele Lavalle, coordinatore di Gender X – Questa manifestazione è una prova: la prossima volta saremo molti di più. È arrivato il nostro momento».