È il 2020 quando il preside de liceo Tito Livio di Padova blocca la candidatura di uno studente alle elezioni per le rappresentanze studentesche. Il candidato vuole iscriversi alle liste come Alessio Rossi (nome di fantasia), ma nei registri scolastici c’è scritto altro. Alessio è il nome d’elezione di uno studente transgender. Alessio vorrebbe rappresentare gli studenti con il nome nel quale si rispecchia, lo stesso con cui già lo chiamano amici, parenti e compagni. Secondo il preside, però, ciò che conta è quello che è scritto sui registri, e la sua candidatura non può essere accettata. «È stato a partire da questo caso che, a Padova e non solo, abbiamo iniziato una riflessione sulla carriera alias nelle scuole» racconta Marco Nimis della Rete degli studenti.

La carriera alias è un protocollo che offre la possibilità di comparire nella burocrazia interna di un ente o di un’azienda con il nome che corrisponde alla propria identità di genere anche se diversa da quello anagrafico, senza che questo incida sui riferimenti legali. La modifica ha valore solo nel circuito che adotta il protocollo.

Lo scopo è quello di evitare alle persone che sono in un percorso di transizione il disagio di venire quotidianamente menzionate con il loro deadname (anglicismo che indica il nome nel quale una persona trans o non binaria non si riconosce più).
«Abbiamo iniziato una battaglia dentro e fuori i consigli d’istituto – spiega Marco Nimes – le resistenze erano tante, non solo perché c’erano pochi riferimenti normativi ma anche perché questi temi sono ancora un tabù. Con un lavoro di formazione e informazione molti muri sono crollati».

Oggi il Tito Livio di Padova è solo una delle 200 scuole italiane che prevedono la carriera alias nel regolamento. In assenza di una legge nazionale, ogni istituto ha stabilito le proprie regole e procedure per l’attivazione del protocollo. Per tutte si configura come un accordo di riservatezza tra la famiglia dello studente (se è minorenne) e la scuola, che si impegna a modificare i registri scolastici, i libretti e tutti gli elenchi interni. Alcuni istituti richiedono una certificazione medica che attesti l’inizio di un percorso di transizione, in altri basta un’autodichiarazione.

Il protocollo è presente in 45 atenei (secondo i dati di Infotrans) e in diverse aziende (la svedese Ikea tra le prime ad adottarlo). Da maggio del 2022, è stato inserito nel nuovo contratto dei dipendenti pubblici di ministeri, agenzie fiscali ed enti non economici (ad esempio l’Inps). Anche alcuni comuni si stanno muovendo nella stessa direzione. Milano, ad esempio, ha istituito il “registro di genere”, un elenco dove si può inserire il nome d’elezione per farlo comparire sui documenti di competenza comunale (abbonamento ai trasporti, tessera della biblioteca, etc).

«La carriera alias è uno strumento per la tutela delle giovani persone transgender, soprattutto in Italia dove la legge che regola il cambio di identità all’anagrafe è obsoleta» sostiene Elisabetta Ferrari di GenderLens, un’associazione che promuove i diritti dei bambini e adolescenti trans.

Una norma da aggiornare

La legge a cui si fa riferimento è la 164 del 1982, approvata dopo un ciclo di lotte che, dalla fine degli anni settanta, ha visto la nascita in Italia di un movimento trans e fatto emergere le istanze di una minoranza fino ad allora rimasta invisibile. A quel periodo risale anche la fondazione del Mit (Movimento Identità Trans), ancora oggi punto di riferimento nel mondo dei diritti lgbtq. «Servirebbe un aggiornamento visto che c’è una legge di quarant’anni fa e il contesto è radicalmente mutato, ma avrei quasi paura a chiedere un intervento del legislatore perché il problema, oltre che politico, è metodologico» spiega Roberta Parigiani, avvocata e portavoce del Mit.

Roberta Parigiani
Servirebbe un aggiornamento visto che c’è una legge di quarant’anni fa e il contesto è radicalmente mutato, ma avrei quasi paura a chiedere un intervento del legislatore perché il problema, oltre che politico, è metodologicoServirebbe un aggiornamento visto che c’è una legge di quarant’anni fa e il contesto è radicalmente mutato, ma avrei quasi paura a chiedere un intervento del legislatore perché il problema, oltre che politico, è metodologico

«Si prendono decisioni senza aprire un dialogo con le realtà che si occupano di questo. Chiunque viene ascoltato in merito alle istanze transgender, tranne le persone trans, le loro famiglie e le persone che lavorano a stretto contatto con loro. Serve una nuova legge, ma sarebbe sbagliato calarla dall’alto». La norma attuale ruota completamente attorno al tema della riassegnazione chirurgica, perché è stata pensata per sanare una situazione legata a un preciso momento storico, i primissimi anni ottanta, quando molte persone si operavano all’estero, restando poi in un limbo di incertezza legale in patria.

Solo nel 2015 alcune sentenze della Cassazione e della Corte Costituzionale, hanno ampliato il raggio di azione di questa legge rendendo l’operazione ai genitali non più una condizione necessaria. Tuttavia l’iter resta macchinoso.

Eppure la questione del nome è centrale per intervenire sul sistema di discriminazioni che colpisce le persone trans. «Le persone trans si trovano a cercare lavoro o ad affittare un immobile con un nome sui loro documenti che non corrisponde alla loro identità percepita ed espressa» spiega Elisabetta Ferrari di GenderLens. «Questi ostacoli legali si sommano a quelli psicologici che, soprattutto nell’infanzia e nell’adolescenza, possono precludere a uno sviluppo sereno, facendo sentire il bambino o adolescente sbagliato o rifiutato dall’ambiente circostante. Per questo la carriera alias andrebbe garantita ovunque» conclude Ferrari.

«Ci è capitato di avere studenti in una situazione di incongruenza di genere. Costretti a un coming out forzato in classe, durante l’appello o all’arrivo di un nuovo docente. La scuola diventava per loro un campo minato». A raccontarlo è Daniele Vignali, dirigente scolastico dell’istituto Nobel di Roma, uno dei primi della capitale ad avere adottato la carriera alias.
Vignali, come altri 149 presidi italiani, nel dicembre 2022 ha ricevuto una lettera di diffida firmata dalle associazioni Pro Vita&Famiglia e Generazione Famiglia.

L’attacco dei pro-life

I gruppi pro-vita hanno osteggiato fin dall’inizio la carriera alias nel quadro di una più ampia lotta “alla teoria gender”. Lo scorso anno hanno lanciato una petizione che ha raccolto oltre 70 mila firme, consegnata alla sottosegretaria all’istruzione Frassinetti il 13 dicembre.

Nel testo della lettera di diffida, i dirigenti d’istituto sono chiamati a «promuovere l’annullamento del Regolamento scolastico contenente la Carriera Alias» in quanto tenderebbe «a consolidare una percezione soggettiva che è nella quasi totalità dei casi – in particolare nei minorenni – temporanea e risolta spontaneamente nella maggiore età». Contro la carriera alias vengono addotte anche motivazioni giuridiche: i regolamenti scolastici che la prevedono sarebbero viziati da incompetenza e la scuola rischia il reato di «falsità ideologica commessa da pubblico ufficiale».

«La carriera alias non va a modificare i documenti ufficiali. Inoltre è stata già prevista per situazioni di altro tipo, ad esempio per i figli di collaboratori di giustizia o nelle situazioni di pre-adozione» ribatte Fiorenzo Gimelli, presidente nazionale di Agedo, l’associazione che raccoglie famiglie, amici e parenti di persone lgbtq. Secondo Gimelli «il vizio fondamentale di questi gruppi è di trattare l’identità di genere come un’opinione, con la quale si può essere o meno d’accordo. Ma l’identità di genere è un modo di essere delle persone e come tale va tutelato».

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Tuttavia l’attività dei gruppi pro-vita ha ricevuto ultimamente nuova linfa dalle parole del Presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Già in campagna elettorale Fratelli d’Italia, insieme a Lega e Forza Italia, aveva sottoscritto un documento redatto dalla galassia pro-life, una Carta dei principi che impegnava simbolicamente la futura coalizione di governo a tutelare la famiglia tradizionale e contrastare la diffusione della “teoria gender”.

Sul settimanale Grazia, in occasione dell’8 marzo, Meloni attacca: «Oggi per essere donna, si pretende che basti proclamarsi tale, nel frattempo si lavora a cancellarne il corpo, l’essenza, la differenza. Le donne sono le prime vittime dell’ideologia gender. La pensano così anche molte femministe».

Le parole della premier non trovano immediato riscontro nella realtà italiana, dove la procedura per modificare il sesso è tutt’altro che facilitata. Probabilmente il riferimento è ad altri paesi europei, in particolare la Scozia e la Spagna che di recente hanno approvato leggi molto avanzate sui diritti delle persone transgender.

L’Italia si presenta invece tra i paesi più arretrati del panorama europeo, nel 2022 è al trentacinquesimo posto per la protezione dei diritti lgbtq secondo il monitoraggio annuale dell’Ilga (International Lesbian and Gay Association).

Su una cosa Meloni dice invece la verità: alcune declinazioni del femminismo oppongono resistenze alle misure che facilitano il riconoscimento legale e sociale delle persone trans. Si tratta soprattutto dei gruppi cosiddetti Terf (Trans Exclusionary Radical Feminist), ma elementi di reticenza sono presenti anche in altre sfumature del pensiero femminista.

Grande sostegno alle istanze delle persone trans viene invece dalle fasce più giovani del movimento femminista, non a caso la battaglia per la carriera alias è partita soprattutto dalle università e dalle scuole. Anche Non Una Di Meno, una rete che negli ultimi anni ha convocato le manifestazioni più partecipate dello scenario italiano, si definisce “transfemminista”.