«I nostri militari fanno chiarezza sulla ‘presunta intoccabilità’ di molti bersagli che in Russia erano considerati protetti al 100%. Come il ponte di Crimea, di cui hanno parlato i rappresentanti del nostro servizio di sicurezza che hanno preso parte sia al primo che al secondo caso». L’ammissione di colpa sulle responsabilità ucraine nell’attacco al ponte di Crimea del 16 luglio scorso, arriva da Oleksiy Danilov, il segretario del Consiglio nazionale per la sicurezza e la difesa del governo di Kiev.

CERTO, DANILOV sa che «Usa e paesi alleati occidentali non autorizzano l’uso di armi occidentali per colpire la Russia, ma queste restrizioni non si applicano alla produzione del complesso militare-industriale ucraino». Ci troviamo, dunque, di fronte a qualcosa di più che una confessione. Si tratta di una minaccia evidente. Per di più nei giorni in cui Mosca è stata più volte raggiunta da squadriglie di droni d’attacco e il Cremlino ha dato il via alla formazione di brigate di volontari armati nelle regioni di confine di Belgorod e Kursk. In occasione del primo attacco al ponte di Crimea, risalente all’ottobre 2022, le autorità ucraine avevano preso 8 mesi per ammettere il proprio coinvolgimento nell’operazione. Stavolta i tempi si sono ridotti drasticamente a tre settimane. Da Mosca i funzionari russi accusano «gli attacchi in territorio russo sono atti di terrorismo e sono il simbolo del fallimento della controffensiva di Kiev». Il portavoce di Vladimir Putin ha anche sottolineato che «avevamo tali informazioni» rispetto al secondo attacco al ponte, «lo sapevamo già». Certo, non era necessario interpellare il genio della lampada per indovinare chi potesse essere il responsabile dell’attacco, ma il dato significativo è la rivendicazione. Dire «siamo stati noi» implica una serie di inferenze.

In primo luogo, che i vertici di Kiev hanno deciso di puntare sulla formula «con le armi occidentali rispettiamo i patti, con le nostre facciamo ciò che vogliamo». Se gli Stati uniti decideranno di accettarla non è ancora chiaro. Sappiamo che Washington non è favorevole a un inasprimento del conflitto nell’est dell’Europa e che i messaggi internazionali lanciati ultimamente dai funzionari della Casa bianca non sono stati ostili contro il Cremlino.

MERCOLEDÌ, ad esempio, il segretario alla Difesa statunitense aveva preso parola sulle accuse ucraine alla Russia rispetto al colpo di stato in Niger. «Non ci risulta che Mosca sia coinvolta», aveva tagliato corto Lloyd Austin, mentre le immagini dei manifestanti nigerini che sventolavano il tricolore imperiale a Niamey facevano il giro del mondo. In tempi recenti gli Usa hanno accusato la Russia di azioni meno eclatanti senza fornire prove. Ieri anche il segretario di Stato di Biden, Antony Blinken, ha teso una mano a Mosca «se la Russia deciderà di tornare all’accordo sul grano, gli Stati uniti faranno in modo che tutte le parti coinvolte, inclusa la Russia stessa, possano esportare cibo». Si tratta di una dichiarazione molto importante perché accoglie la principale richiesta del governo di Putin per riaprire i negoziati rispetto all’Accordo sul grano, ovvero che si offrano garanzie per l’export anche alle aziende russe.

MA ALLORA le sanzioni? Il messaggio di Blinken sembra non considerarle, volutamente è ovvio. E non si trascuri che tale dichiarazione arriva a un solo giorno di distanza dal colloquio telefonico tra Putin ed Erdogan. Gli Usa non vedono di buon occhio l’alleanza tra i due e ripristinare l’Accordo sul grano è un modo per porre tutto sotto l’egida dell’Onu, ridimensionando l’importanza di Ankara.

Intanto tra la Bielorussia e la Polonia si inaspriscono le tensioni a causa di alcuni elicotteri di Minsk che avrebbero sconfinato. Lukashenko nega e richiama l’ambasciatore, Varsavia accusa con decisione e chiede chiarimenti mentre l’Ue ha deciso di allineare le sanzioni alla Bielorussia a quelle russe.