Evitiamo le geremiadi, i capi cosparsi di cenere come anche le facili auto-assoluzioni. Ancora meno, a tale riguardo, le gratuite sovrapposizioni, l’uso disinvolto di parole e, soprattutto, di pensieri facilmente generalizzabili. Semmai muoviamoci nelle sabbie mobili del pensiero di senso comune, dotati tuttavia di una necessaria circospezione critica. Come tale, non sospettosa ma comunque analitica. No, quest’anno la ricorrenza del Giorno della Memoria non potrà essere liquidata come l’ennesimo adempimento, in sé comunque già da tempo divenuto scettico e stanco, quindi inflazionato e usurato, di un obbligo istituzionale. Poiché, già nel suo essere tale – ossia cristallizzato in un ritualismo che si esprime con la medesima enfasi posticcia di certe routine del tempo trascorso – invece svuota di concreti contenuti il passaggio storico che dice di volere altrimenti rammentare e, quindi, vivificare.

SE L’IMPERATIVO del «mai più!» ha raccolto inizialmente una qualche adesione, pare adesso essere invece smentito, di giorno in giorno, dal riscontro dei fatti, delle cronache, dello stesso smarrimento collettivo. Come tale, il paradosso che una tale ricorrenza ingenera negli osservatori non è la consapevolezza che deriva dall’irripetibile eccezionalità di un evento bensì il dubbio di una sua inesorabile ripetitività. Quand’anche, nei fatti, così non può essere per nulla. Le vittime, a conti fatti, reclamano sempre l’unicità del delitto che hanno subito. Altro discorso, invece, è la sua possibile reiterazione, quanto meno in alcuni suoi aspetti, da parte delle istituzioni collettive. Quindi, in contesti, tempi e protagonisti tra di loro differenti.

Posto tutto ciò, ossia il fatto che nulla sia banale ed esclusivo, quindi in sé irripetibile, un aiuto concreto ci è offerto dalla meritoria ristampa, a vent’anni di distanza dalla sua prima uscita, del volume di Daniela Padoan, Come una rana d’inverno (Einaudi, pp. 199, euro 12,50). La prospettiva di genere rispetto alla Shoah ne emerge con chiarezza e nettezza, evidenziando anche discontinuità e alternative rispetto ad una lettura esclusivamente fondata su paradigmi maschili. Quelli ad oggi, altrimenti, dominanti.

Poste queste premesse, l’orizzonte problematico del nostro pensiero diventa allora ben altro. Dietro a questo complesso scenario, infatti, non ci sono solo gli «ebrei» (alternativamente concepiti come eterne vittime oppure inediti carnefici, comunque come un blocco omogeneo che si presta, nel mentre, a recitare una qualche parte nel teatro grandguignolesco delle tragedie collettive), al pari di altre figure di circostanza. Bene, nel qual caso, rifarsi all’opera firmata da Piero Stefani e Davide Assael, Storia culturale degli ebrei (il Mulino, pp. 335, euro 24).

SEMMAI, RIMANE un irrisolto interrogarsi sulle radici, per nulla metafisiche bensì rigorosamente politiche, del rapporto tra servi e padroni. Nel corso della storia recente. Quindi, in età contemporanea. Soprattutto quand’esso si esplicita, quasi scarnificandosi, nella nuda vita che appare per quella che in realtà è da sempre, ossia esistenza indifesa. La memoria dello sterminio, come dei campi di concentramento, ci consegna tutto ciò. Non altro, semmai essendo un’enfatizzazione di un dispositivo di emergenza che, altrimenti, sia pure in misura molto meno cruenta, opera ogni giorno. A tale riguardo, la rilettura delle poche e cristalline pagine di colui che fu anche un teologo, Emil L. Fackenheim, con il suo Olocausto (Morcelliana, 2011 e successive ristampe, pp. 86, euro 8) può risultare utile.

Non si sta parlando, tanto per capirci, di essenze compatte, quasi si trattasse di ectoplasmi metastorici che non si confrontano mai con la realtà dei fatti.
In un’Europa «unita» che ha identificato nella lotta ai «totalitarismi» trascorsi la sua stessa radice – senza tuttavia avvedersi delle autocrazie che, un po’ ovunque, stanno tornando, nel loro presentarsi come risposta alla crisi del modello democratico novecentesco – il Giorno della Memoria può essere affrontato in due modi.

Nel primo caso, come una sorta di anacronistico e intollerabile adempimento ad una qualche obbligazione, come tale tanto imposta così come destituita da sé di un autentico fondamento. Per capirci, qualcosa che risponde, nel medesimo tempo, ad un esercizio retorico del pari ad un adempimento di prammatica, laddove le parti da recitare sono teatralmente già disegnate a priori. Nel secondo, invece, come la concreta occasione per affrontare di petto non tanto un «passato che non passa» bensì un presente che non trascorre. Ossia, del quale non riusciamo a darci ragioni decisive, vivendo semmai in un regime di indeterminatezza, di insicurezza, di permanente precarietà, quindi di totale atomizzazione.

Poiché ciò che conosciamo come «post-verità», tale in quanto qualcosa di onnipresente, un campo di falsi significati in cui si producono effetti di equivalenza, di intercambiabilità, di banalizzazione e di perverso presentismo (ovvero, l’appiattimento su un tempo che, per l’appunto, diventa totalizzante), è il vero indice del disorientamento comune. Il quale ha un unico timbro: ciò che stiamo vivendo, non solo ci risulta incomprensibile (come l’esperienza di coloro che venivano condotti alla mattanza, nei tempi del nazismo imperante), ma inesorabile. Quindi, non modificabile.

LA DECADENZA del dibattito politico che si è generato in questi ultimi decenni, non a caso, incide molto anche sull’uso disinvolto delle parole. Basti pensare all’espressione «nazi-sionismo» – e di riflesso all’accusa di genocidio – nei confronti della condotta di Israele rispetto alla sua esperienza storica nel controverso e distruttivo rapporto con i palestinesi. Tema in sé delicatissimo, quest’ultimo, poiché nel vuoto degli orizzonti di coscienza e conoscenza sollecita invece reazione quasi pavloviane.

Dato che tutti questi elementi si tengono insieme e costruiscono una rete di pseudo-significati che, come tali, stanno radicalizzando una grande parte della comunicazione collettiva. Facendola deragliare nella non distinzione del «tutto uguale». Il campo, tanto per capirci, in cui prolifera l’ideologia liberista. Un tale bailamme – beninteso – non nasce da oggi. Semmai si innerva appieno nel nostro presente. Cancellando invece la rilevanza delle differenze. Quelle che non costruiscono gerarchie di dolore ma cercano di tenere insieme vicende storiche, altrimenti differenti, pur tuttavia mantenendo le necessarie distinzioni di scala e di merito. Quindi, di significati.

Non a caso, semmai proveniamo già da un lungo periodo in cui la retorica delle memorie «simmetriche e condivise» (il magistero di Ciampi e Napolitano, per capirci), basate come tali su una falsa inclusione, quella in cui tutti sono vittime, quindi nella stessa condizione, ha contato molto nell’abbattimento degli anticorpi critici, pertanto della stessa distinzione tra storie molto diverse.

È comunque difficile rispondere a chi mette nello stesso sacco cose differenti, giocando semmai sul tasto dell’identificazione affettiva e sentimentale come esclusiva possibilità. Non a caso, l’utilizzo della rielaborazione del passato al pari di un campo di conflitto, tale poiché agone fra narrazioni contrapposte, si riversa anche nella sensibilità civile, quindi nel modo in cui le persone giudicano il proprio presente. A tale riguardo, le vicende del 7 ottobre 2023, e ciò che da esse ne è conseguito, ovvero a tutt’oggi una ferita aperta, destinata a diventare purulenta, vanno ben oltre i vecchi schemi di interpretazione. Poiché sono il segno di un netto cambio di passo, non solo in Medio Oriente. In qualche modo, infatti, costituiscono quella «terra di mezzo» (non tolkeniana, semmai gramsciana) laddove «il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri». Ci sono una miriade di considerazioni da fare al riguardo.

TUTTAVIA, basti richiamare il conflitto, apertamente in corso, tra ciò che residua delle stanche democrazie liberali e sociali, generatesi dopo il ’45 e ora, per più aspetti, al tramonto, e nuove autocrazie. Queste ultime si presentano, sulla scena pubblica, come orizzonti tanto plausibili quanto possibili. Costruiscono, intorno a sé, un repertorio di rappresentazioni che potrebbe diventare giudizio di senso comune. Non il migliore viatico. Forse, per capirci meglio, varrebbe la pena di leggere analiticamente Manuel Disegni, Critica della questione ebraica (Bollati Boringhieri, pp. 442, euro 28). Come dire, ripartiamo dai fondamentali. Se ne siamo ancora capaci.