«Fiamme rosseggianti volteggiavano nell’aria. Il fumo saliva in cielo in masse nere e compatte e in mezzo a tutto ciò gli aeroplani continuavano a muoversi di qua e di là con l’agilità di uccelli. I marciapiedi erano letteralmente coperti da palline di trementina infuocate, sapevo benissimo da dove provenivano e sapevo benissimo perché ogni edificio che bruciava si era incendiato a partire dall’alto. Mi fermai e aspettavo un momento opportuno per fuggire. Dov’è il nostro splendido reparto di vigili del fuoco con le sue dozzine di stazioni? Mi sono chiesto: la città sta cospirando con la folla dei criminali?».

ERANO GIÀ PASSATI più di novant’anni dai fatti quando, nel 2015, furono ritrovate le dieci pagine di un manoscritto di chi era stato testimone diretto della tragedia. Di chi aveva assistito al tentativo di cancellare nello spazio di un paio di giorni d’inizio estate l’intera comunità nera di Tulsa, Oklahoma, nel 1921. Buck Colbert Franklin, scomparso nel 1957, un avvocato di origini afroamericane e Choctaw, era noto per aver rappresentato alcuni del sopravvissuti al massacro e per il suo impegno al debutto del movimento per i diritti civili, nonché per essere il padre dello storico John Hope Franklin, tra i maggiori studiosi della condizione nera dall’epoca dello schiavismo agli anni Novanta del Novecento, e aver legato il proprio nome al progetto del National Museum of African American History and Culture (Nmaahc) che dopo una lunghissima gestazione fu infine inaugurato a Washington nel settembre del 2016 dall’allora presidente degli Stati Uniti Barack Obama.

Eppure, quella terribile descrizione di prima mano dell’accaduto, subito acquisita dalla stessa istituzione storica della capitale federale gestita dallo Smithsonian, ha contribuito a fare di quest’uomo un testimone fondamentale di una delle pagine più drammatiche della pur orribile e cospicua storia del razzismo in America. Questo perché, anche al di là della precisione dei ricordi che Buck Franklin affidò alla carta – non è mai stato chiarito se effettivamente ebbe luogo anche una sorta di «bombardamento» dei quartieri neri della città -, ciò che viene descritto in quelle righe è lo scenario di una guerra, la messa in stato d’assedio di piazze e strade, l’attacco deliberato e dagli esiti potenzialmente fatali di un’intera comunità.

Una storia dimenticata, cancellata troppo in fretta dalle cronache, cui forse solo nel centenario degli eventi si è cominciato a guardare con una consapevolezza nuova, per molti versi ancora tutta da costruire.

A LUNGO, QUELLO DI TULSA è stato del resto etichettato come uno dei molti «race riots» conosciuti dal Paese, fino alle recenti sommosse e proteste che hanno fatto seguito allo stillicidio di morti violente di giovani neri per mano delle forze dell’ordine – un tragico elenco che nell’ultimo decennio è stato inaugurato dall’assassinio del 17enne Trayvon Martin in Florida nel 2012. I «riots», come precisano i dizionari, sono però «scontri violenti tra persone di razze diverse che vivono nella stessa comunità». Mentre invece quanto accaduto a Tulsa tra il 31 maggio e il 1° giugno del 1921 ha piuttosto i contorni di una strage, un massacro o, come segnalavano gli appunti di Buck Franklin, di un vero e proprio «atto di guerra».

Preziosa, in questo senso, la scelta di Mimesis di proporre nella bella collana «Le carte della memoria» uno dei testi più importanti pubblicati sull’argomento negli Stati Uniti e che non si limita a ricostruire quanto accaduto allora, ma riflette in modo approfondito sul vuoto del ricordo che nel Paese si è in seguito registrato su quei fatti, tanto da parlare apertamente di «segregazione della memoria»: Morte nella terra promessa (pp. 168, euro 18, traduzione di Annalisa Sanson) dello storico Scott Ellsworth, che comprende anche un ampio apparato fotografico che rende subito percepibile l’entità della tragedia.

Il docente di Storia afroamericana, letteratura del Sud e rapporti interrazziali all’Università del Michigan passa prima di tutto in rassegna i fatti sulla base di un lavoro di ricerca durato anni e durante il quale si è avvalso di archivi, testimonianze, fondi informativi locali e federali.

A Tulsa le violenze scoppiarono nel corso del fine settimana seguente al Memorial Day, quando si commemorano i soldati americani caduti in tutte le guerre e in un contesto nel quale i veterani neri che avevano rischiato la propria vita in Europa durante il Primo conflitto mondiale erano stati accolti al loro ritorno a casa dalle stesse regole relative alla segregazione razziale che avevano conosciuto prima della partenza per le trincee del Vecchio continente.

IN QUESTO CLIMA, un giovane afroamericano, Dick Rowland, venne arrestato con l’accusa di aver aggredito una diciassettenne bianca, Sarah Page, addetta agli ascensori dell’edificio commerciale al cui ultimo piano si trovavano i soli bagni utilizzabili dai neri che lavoravano in quella zona del centro di Tulsa. Dopo l’arresto, una folla di centinaia di bianchi si radunò fuori dalla prigione probabilmente con l’intento di linciare l’uomo. In sua difesa, al contrario, accorsero anche dei neri. In entrambi i gruppi c’erano persone armate e, malgrado la presenza di un certo numero di agenti di polizia, dagli scambi verbali si arrivò rapidamente alla rissa e quindi all’esplosione di diversi colpi. Almeno una decina di persone furono colpite a morte e questo segnò l’inizio del massacro.

Per tutta la notte del 31 maggio gruppi di bianchi armati diedero l’assalto al quartiere afroamericano di Greenwood, anche noto come «Black Wall Street» perché ospitava un’intensa vita commerciale e economica e numerose famiglie nere appartenenti alla borghesia o ai ceti medio-alti. Le violenze sarebbero continuate per ore e sarebbero state interrotte solo dall’intervento in forze della Guardia nazionale dell’Oklahoma, che decretò la legge marziale, a mezzogiorno del 1° giugno.

Se sul bilancio dell’esplosione di violenza non esistono dati certi, le stime più attendibili parlano di qualche decina di vittime bianche e di almeno 250 nere. Incalcolabili i danni materiali visto che l’intera area commerciale della zona fu distrutta da incendi – gli assalitori, armi in pugno, impedirono spesso ai vigili del fuoco di spegnere le fiamme -, e furono bruciate allo stesso modo anche chiese, scuole e l’unico ospedale della zona. La Croce Rossa calcolò che circa 10mila afroamericani erano rimasti senza casa.

QUELLO CHE POTEVA apparire come uno scoppio improvviso di furia, aveva però delle radici visibili fin nello sviluppo vorticoso conosciuto dalla città dell’Oklahoma che era passata nello spazio di un decennio da meno di 20mila abitanti ad oltre 72mila. Malgrado la rigida segregazione razziale imperante, a Tulsa cresceva una borghesia nera e, in seno ad essa, l’idea che il denaro potesse almeno in parte affrancare gli afroamericani dalla supremazia bianca. Nello stesso periodo, proprio il centro del Sud-Ovest diveniva però una delle capitali del «nuovo» Ku Klux Klan, rifondato nel 1915 e che all’inizio degli anni Venti contava oltre 3000 aderenti a Tulsa, compresa una forte sezione femminile, e molti seguaci tra le forse dell’ordine che non a caso durante i giorni della violenza arrivarono ad arrestare alcune migliaia di neri che stavano semplicemente cercando di opporsi alla distruzione delle loro case e del loro quartiere.

PRIMA DI TRASFORMARSI in un’aperta volontà di morte, quell’odio aveva messo stabili radici in città. Eppure, come illustra il libro di Scott Ellsworth, questa terribile vicenda appare tutt’altro che un fatto isolato nelle vicende del Paese. «Il massacro di Tulsa – scrive lo storico – non è che uno dei capitoli della sofferta storia delle violenze razziali in America. È probabile che per vastità di distruzione e tasso di vittime rispetto alla popolazione non abbia eguali negli Stati Uniti in tutto il Novecento. Non si tratta però di un singolo evento anomalo che si staglia con brutalità su un passato armonioso e pacifico. Eventi simili a questo sono parte della storia di Boston, Providence, New York, Filadelfia, Washington, Atlanta, New Orleans, Detroit, Chicago, Los Angeles e di decine di altre città». Perciò, conclude Ellsworth, non è affatto azzardato dire che «la storia di Tulsa è la storia dell’America».