La memoria è fatta di verità e di rabbia
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La memoria è fatta di verità e di rabbia

Shoah e non solo La memoria non si nasconde dietro a una corona di fiori, dietro a una targa di marmo, dietro al nome di una strada
Pubblicato quasi 2 anni faEdizione del 27 gennaio 2023

Per la giornata della memoria di questo 2023 mi vengono in mente quattro cose. La prima è un’intervista che ho avuto l’opportunità di fare a Shlomo Venezia 17 anni fa a Auschwitz. La seconda riguarda Giulio Regeni. Il 25, due giorni fa, siamo andati a Fiumicello per ricordarlo nel giorno in cui fu rapito al Cairo. La terza è un articolo scritto da un celebre giornalista del Corriere della Sera. Questa cosa è legata alla precedente. L’ultima è la storiaccia della mattanza di Santa Maria Capua Vetere.

Dunque la prima cosa è l’intervista a Shlomo Venezia. Passeggiamo sull’erba del campo di Auschwitz e mi racconta del cugino di suo padre, Leone Venezia. Sta in fila per entrare nella camera a gas e gli chiede di salvargli la vita. «Allora io sono andato vicino ad un tedesco con cui si poteva anche parlare» dice Schlomo. Ma il tedesco risponde che «È tutto una merda, siamo tutti nella merda» e non si può fare niente. Dopo un quarto d’ora Leone è morto. I compagni di lavoro di Schlomo possono solo fargli il favore di non metterlo a estrarre i corpi dalle camere a gas.

La seconda cosa comincia con una frase della mamma di Giulio. Paola Deffendi parla dei poliziotti italiani che arrivano al Cairo dopo il ritrovamento del corpo di Giulio. Dice «La domanda che facevano era “Perché è andato qua? Come mai parla tante lingue?” Io volevo dire “perché è portato, è bravo, ha studiato”. Ogni domanda vedevo proprio tutto che si metteva contro Giulio. Che tutto quello che aveva fatto, sudato, diventava contro di lui».

A settembre del 2019 Paola e Claudio, i genitori, sono invitati all’anniversario di matrimonio di un’amica di Giulio. «Avevano studiato assieme e avevano fatto un anno accademico all’istituto linguistico al Cairo» dicono. «È stata una bellissima esperienza. Ci sembrava proprio un gesto di affetto nei nostri confronti e nei confronti di Giulio. Abbiamo conosciuto tante persone che erano ragazzi di tutto il mondo. E noi ci siamo trovati a nostro agio perché questi ragazzi assomigliavano moltissimo a Giulio. Parlavano tutti come minimo quattro cinque lingue e cambiavano in scioltezza da una lingua all’altra. No? E sentirli ragionare delle loro esperienze, delle loro aspettative, delle loro problematiche era un po’ come vivere di nuovo con Giulio e questo ci ha dato il conforto di sentirci normali, perché in un contesto diverso ti sembra quasi di non essere tanto normali. Invece in quel contesto ci siamo sentiti proprio bene. Io non mi ricordo se l’abbiamo scritto o se l’abbiamo solo pensato. È stato come rimettere a posto un puzzle. No?»

La terza cosa è l’articolo del giornalista Ernesto Galli della Loggia pubblicato sul Corriere della Sera il 12 luglio 2020. Scriveva che «dopo il primo doveroso richiamo del nostro ambasciatore, destinato naturalmente a non avere alcun esito apprezzabile – a qualunque persona con una minima conoscenza delle cose è apparso chiaro che la partita con il Cairo era una partita disperata. Per due ragioni evidenti. Innanzi tutto perché il potere di Al Sisi, il dittatore egiziano, ha nei servizi segreti un suo piedistallo essenziale». E poi «abbiamo bisogno del ben volere di Al Sisi perché l’Eni possa continuare ad estrarre dal suo Paese l’ingentissima quantità d’idrocarburi e di gas». Perciò è un esercizio inutile chiedere giustizia per Giulio. Basta «intitolare al suo nome una via o una piazza in tutti i comuni della Penisola». Scrive proprio così. E purtroppo è di nuovo una storia di questi giorni. La petizione per mettere una pietra sopra il corpo di Giulio. Anzi metterci una strada intera con targa di marmo e corona di fiori.

L’ultima storia è quella della mattanza nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Decine di guardie scendono in sezione e bastonano i detenuti. Tra di loro si dicono «li abbattiamo come vitelli» e «arrivano i lupi». Ci ricordiamo? È successo quasi tre anni fa.

Cosa hanno in comune queste quattro storie?

Il soldato tedesco di Auschwitz dice «È tutto una merda, siamo tutti nella merda», ma che ci vuoi fare? Il povero Leone muore e Schlomo ha la piccola fortuna di stare in disparte mentre portano il cadavere al crematorio. Eppure Schlomo sopravvive e racconta.

E Giulio? Galli della Loggia dice che «abbiamo bisogno del ben volere di Al Sisi perché l’Eni possa continuare ad estrarre dal suo Paese l’ingentissima quantità d’idrocarburi e di gas». I genitori hanno la piccola fortuna di vedere «intitolare al suo nome una via o una piazza in tutti i comuni della Penisola». Eppure i genitori di Giulio quella strada non la vogliono. Si battono per avere verità e giustizia. Non è vero, come scrive il bravo giornalista, che le loro richieste sono «inevitabilmente destinate a farsi sempre più rituali, sempre più tenui e a finire in un nulla». Adesso abbiamo i nomi dei suoi probabili carnefici. Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi, Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. Possiamo processarli.

Infine nel carcere di Santa Maria Capua Vetere le guardie scendono in sezione coi manganelli come lupi che si lanciano sul gregge di pecore. Eppure comincerà un processo. Anche per questa scandalosa vicenda. Le videocamere della galera erano accese e le immagini della mattanza sono online.

La memoria è fatta di nomi, di facce, di luoghi, di storie, di rabbia, di giustizia, di verità.

In questo giorno si dice sempre la stessa frase: « Per non dimenticare».

Ecco cosa significa. La memoria non si nasconde dietro a una corona di fiori, dietro a una targa di marmo, dietro al nome di una strada.

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