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La «memoria» corta dell’opposizione: pretese di votare e poi si tirò indietro

La «memoria» corta dell’opposizione: pretese di votare e poi si tirò indietroUn seggio in Venezuela – LaPresse

Venezuela Nel 2018 il diktat Usa bloccò il negoziato faticosamente messo in piedi da Zapatero e papa Francesco. Solo una parte delle opposizioni partecipò al voto anticipato. E il sistema di voto usato, oggi definito "illegittimo", è stato lo stesso del 2015, quando vinse la Mud

Pubblicato quasi 6 anni faEdizione del 25 gennaio 2019

Un presidente illegittimo, un usurpatore, addirittura un dittatore. Così viene presentato Maduro dal governo statunitense e i suoi burattini e, di conseguenza, dai loro megafoni nella stampa di regime. Un coro generale che descrive il suo secondo mandato come frutto di un processo elettorale imposto dal chavismo e non in linea con gli «standard internazionali di libertà, equità e trasparenza».

Eppure era stata proprio l’opposizione a sollecitare la convocazione di elezioni anticipate, nel quadro del negoziato con il governo portato avanti a inizio 2018 nella Repubblica Dominicana. Per poi mandare all’aria all’ultimo minuto l’accordo faticosamente raggiunto, con la data delle presidenziali fissata per il 22 aprile, tra lo sconcerto dei mediatori (lo spagnolo Zapatero, il dominicano Fernández e il panamense Torrijos) e dello stesso papa Francesco (che aveva ricondotto il fallimento del dialogo alle divisioni dell’opposizione).

Un repentino dietrofront – ricondotto dal governo a una tempestiva telefonata proveniente dalla Colombia, in contemporanea con la visita dell’allora segretario di Stato Usa Rex Tillerson – con cui l’opposizione aveva affidato tutte le sue chance di riconquista del potere alla speranza di un risolutivo intervento esterno o all’attesa di un collasso interno per effetto delle sempre più dure sanzioni internazionali.

Di fronte alla marcia indietro della Mud, il Consiglio nazionale elettorale aveva fissato ugualmente per il 22 aprile la data delle presidenziali, per poi spostarle al 20 maggio, al fine di venire incontro alle richieste della parte dell’opposizione – quella più democratica – decisa a non boicottare l’appuntamento elettorale e rappresentata da tre candidati presidenziali: Henri Falcón, Javier Bertucci e Reinaldo Quijada.

Il 20 maggio, sui 9,1 milioni di voti espressi (il 46% dell’elettorato, una percentuale nella norma per diversi Paesi) Nicolás Maduro ne aveva incassati circa 6,2, il 68% delle preferenze, rifilando un distacco abissale al suo più temuto avversario, l’ex chavista Falcón, fermo al 21%. Un processo di cui i circa 150 accompagnatori internazionali presenti avevano evidenziato la regolarità e la trasparenza, in virtù dell’alta qualità tecnica del sistema di voto elettronico venezuelano, la cui affidabilità era stata sottoposta a ben 18 revisioni e avallata da tutti i partiti politici.

Lo stesso sistema, peraltro, impiegato nelle parlamentari del 2015 vinte dall’opposizione, quando a nessuno era venuto in mente di contestare la legittimità del processo elettorale. E tanto più assurda e arbitraria appare l’accusa di illegittimità della presidenza Maduro di fronte al ben diverso atteggiamento assunto dagli Stati uniti e dai loro vassalli nel caso – per esempio – dell’incostituzionale ricandidatura e poi della fraudolenta elezione di Juan Orlando Hernández in Honduras, oggi ancora al suo posto, riconosciuto dalla comunità internazionale e impegnato a firmare, all’interno del Gruppo di Lima, documenti sul mancato rispetto da parte del governo venezuelano degli «standard internazionali di libertà, equità e trasparenza».

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