La maledizione di Lumumba
Reportage «L’Upemba è sotto assedio, lo minacciano di continuo i bracconieri, l’estrazione illegale di minerali, le milizie armate Mai Mai... e la fame». La difficile esistenza di un parco nazionale grande come l’Abruzzo, nel sud-est della Repubblica democratica del Congo. E quella di chi abita nei villaggi confinanti. Viaggio nel Katanga maledettamente ricco di risorse naturali, dove meno si ha e meno si rischia. Non lontano dai luoghi in cui è stato commesso uno dei più gravi omicidi politici del XX secolo
Reportage «L’Upemba è sotto assedio, lo minacciano di continuo i bracconieri, l’estrazione illegale di minerali, le milizie armate Mai Mai... e la fame». La difficile esistenza di un parco nazionale grande come l’Abruzzo, nel sud-est della Repubblica democratica del Congo. E quella di chi abita nei villaggi confinanti. Viaggio nel Katanga maledettamente ricco di risorse naturali, dove meno si ha e meno si rischia. Non lontano dai luoghi in cui è stato commesso uno dei più gravi omicidi politici del XX secolo
Christina Lain dirige il Parco Nazionale dell’Upemba, nel Katanga, regione sud orientale della Repubblica democratica del Congo (RdC) e gestisce un parco delle dimensioni dell’Abruzzo e 247 rangers con addestramento militare. «L’Upemba – dice Christina – è un parco sotto assedio, lo minacciano i bracconieri, le attività di estrazione illegale di minerali e i Mai Mai, le milizie armate del Katanga… ma anche la fame». Gli abitanti dei villaggi confinanti entrano nel Parco per trovare di che sopravvivere.
IL PARCO FU FONDATO con decreto reale del Belgio nel 1939 ed è uno dei più antichi ed estesi della RdC. È l’unico parco del Congo con popolazioni di zebre (che effettivamente abbiamo visto) e ghepardi (invisibili). A garantirne la sopravvivenza sono i ranger dell’Istituto congolese per la conservazione della natura (Iccn) con il personale della ong statunitense Forgotten Parks Foundation, letteralmente “la fondazione dei parchi dimenticati”.
Mai nome poteva essere così adeguato, per gestire un parco dimenticato da Dio e minacciato di continuo da una moltitudine di interessi internazionali, nazionali e criminali. Un conflitto perenne che negli anni ha riempito il cimitero del campo base.
Fino al 2015 il Parco non riceveva finanziamenti: ranger e militari dell’esercito, per non morire di fame, campavano uccidendo gli animali. «La ripresa è lenta – dice Tina ma le cose stanno migliorando».
LE CONSEGUENZE di anni di guerra e di abbandono sono evidenti: riuscire a vedere gli animali non è facile e, quando avviene, le distanze che ci separano, le rapidissime fughe delle zebre, la frenesia dei facoceri in fuga, sono direttamente proporzionali al terrore in cui gli animali hanno vissuto e in cui in parte continuano a vivere.
Nella stagione secca il protagonista principale del parco è il fuoco. Ettari di terra bruciata rendono il paesaggio sconfortante; di notte lunghe linee di fuoco circondano le morbide colline. I bracconieri bruciano per rendere meglio visibili sia gli animali che le pattuglie di ranger. In questo modo la loro azione può essere rapida e minore il rischio di essere catturati.
Tutte le regioni orientali del Congo sono ricchissime di minerali: rame, stagno, zinco, oro, diamanti, coltan, cobalto.
Il paese è il sesto produttore mondiale di rame, produce 22 milioni di carati in diamanti e possiede l’80% delle riserve mondiali di coltan, elemento chiave di tutte le componenti elettroniche. Eppure la popolazione del Katanga vive in povertà estrema. Un classico paradosso di molte regioni nel Sud del mondo, dove sovrana è l’equazione risorse=povertà=guerra. Quello che il geografo Richard M. Auty ha chiamato “la maledizione delle risorse”.
PER IL CONGO LA MALEDIZIONE va avanti da secoli: inizialmente erano gli schiavi che arricchivano i commercianti portoghesi, poi l’avorio in epoca vittoriana e soprattutto la gomma di re Leopoldo II del Belgio. Oggi è l’abbondanza di minerali a essere maledetta. Le risorse sono state il leit motiv della prima e seconda guerra del Congo (1996 – 2003) e degli oltre 5 milioni di morti che ne derivarono. E che oggi vengono usate per finanziare milizie più o meno controllate da paesi confinanti o pilotate per procura da attori internazionali invisibili. Un circuito ben oliato che nessuno vuole davvero interrompere.
Sulla N1, la strada che da Lubumbashi, capoluogo del Katanga, porta verso il Parco, scorre un tipo di traffico molto particolare. È la strada dell’estrazione mineraria del Congo, centinaia di migliaia di dollari che transitano ogni giorno sul suo asfalto. Ad andare verso sud, verso il confine con lo Zambia, sono i Tir che trasportano rame in lastre o cobalto grezzo in sacchi, destinati ad essere imbarcati verso l’Asia. Verso nord, verso le città minerarie, viaggiano invece gli articolati che trasportano cisterne di acido, calce o zolfo, tutti gli ingredienti per la prima lavorazione dei minerali. Non è possibile sbagliarsi, è la legge dell’N1.
Lungo la strada si trova anche il memoriale dedicato a Patrice Lumumba, il primo ministro congolese assassinato per ordine dei belgi nel 1961, a soli due mesi dalla dichiarazione di indipendenza. I suoi discorsi incendiari e il suo breve governo avevano ottenuto il consenso entusiasta del popolo congolese e lo sgomento dei belgi, di Wall Street e della City of London.
IL MEMORIALE è stato inaugurato a giugno di quest’anno con cerimonia ufficiale, e contestuale visita del re e della regina del Belgio. L’occasione è stata la restituzione dell’unica reliquia rimasta di Lumumba: un dente. Lumumba fu infatti fucilato (insieme ad altri due membri del suo governo) e il suo corpo sciolto nell’acido. L’unica cosa che ne rimase fu un dente. L’acido solforico usato per sciogliere il corpo è lo stesso acido che le autocisterne trasportano oggi sulla N1.
A fronte dell’incommensurabile quantità di risorse naturali, minerali e umane che hanno reso potenze mondiali il piccolo Belgio e i capitali occidentali, il Congo ad oggi ha ricevuto solo un dente.
Lumumba fu fucilato nel luogo dove è stato costruito il memoriale, era il 17 gennaio del 1961, aveva 35 anni. Il suo assassinio è stato uno dei più gravi (e a lungo dimenticato) omicidi politici del XX secolo.
RIPRENDENDO LA N1 il gioco dei camion finisce quando entriamo a Likasi, la città del rame: lo stesso rame che rivestiva gran parte delle bombe e dei proiettili dei due conflitti mondiali e quelli della guerra del Vietnam. I negozi sono per lo più ferramenta che vendono tutto quello che serve agli operai delle aziende estrattive: carriole, pale, picconi, tute e scarponi anti infortunio di seconda mano.
Superata Likasi si prende il bivio verso i confini del Parco. Proseguendo si arriverebbe a Kolwezi, la città del cobalto, materia prima delle nostre batterie quotidiane. Con l’aumento della produzione delle auto elettriche negli ultimi dieci anni la domanda di cobalto è cresciuta in maniera esponenziale: il Katanga ne offre al mondo il 70%. Fonti rinnovabili o meno, insomma, la RdC non si libererà facilmente dalla maledizione delle risorse. Batterie, computer, pannelli fotovoltaici, televisori, strumentazione medica: viviamo e vivremo quotidianamente di Congo.
IMBOCCANDO IL BIVIO la strada non è più asfaltata, i tetti di lamiera lasciano il posto a quelli di paglia. Si viaggia per ore nella polvere e gli articolati sono spariti: qui comincia la terra dello sfruttamento artigianale, una specie di Klondike congolese dove avventurieri, uomini e donne in cerca di sopravvivenza, nuclei familiari, scavano per cercare oro e cassiterite (da cui si ricava lo stagno). Anche nelle zone di parco. Compito dei ranger è di fare in modo che questo non avvenga ma il rischio è molto alto. Le cave sono spesso sotto il controllo delle milizie armate che non esitano ad aprire il fuoco.
Franck Nsenga è il comandante dei ranger del Parco dell’Upemba, ha 22 anni e tre figli. L’ultima è una bellissima bambina di cinque mesi; la dolcezza con cui parla alla bambina mal si accorda al rigore con cui tiene insieme le truppe, un piccolo esercito di ragazzi sorridenti insieme a settantenni coi volti segnati, che marciano ordinati verso l’alzabandiera. Per le guardie anziane del parco non esiste ad ora un programma pensionistico. Rimarranno a proteggere il Parco fino alla fine dei loro giorni.
Franck è convinto che l’unico modo per preservare quel che rimane del parco sia dare agli abitanti dei villaggi confinanti la possibilità di sopravvivere.
Dal 2017, la ong italiana Coopi, insieme all’Iccn e con i finanziamenti dell’Unione europea, ha avviato un progetto di conservazione partecipata che ha lo scopo di conservare le risorse del Parco e garantire al contempo la sopravvivenza delle popolazioni confinanti.
LA COLONIZZAZIONE prima e decine di anni di guerre e di violenze hanno distrutto le tradizioni e il tessuto socio-economico delle comunità agropastorali di questa regione. La gente è abituata a coltivare lo stretto necessario. Meno si ha, meno viene estorto con la violenza, meno tempo è necessario per scappare, meno cose si lasciano indietro. Intervenire significa recuperare conoscenze e tradizioni; e migliorarle attraverso il sapere moderno. Introdurre per esempio sementi migliorate di mais, fagioli, riso, soia, arachidi, che possano dare rese migliori e i cui semi non siano sterili ma adatti ad essere ripiantati per più cicli di produzione. Oppure si creano allevamenti comunitari di cui tutto il villaggio segue l’evolversi.
In diversi villaggi che abbiamo visitato gli abitanti hanno oggi di che sopravvivere, soldi per mandare a scuola i bambini e un fondo comunitario per le emergenze. Nel villaggio di Kawama si riparte dalle capre: «Un tempo – racconta il capo villaggio – avevamo anche delle mucche, ma durante gli ultimi conflitti, militari e miliziani le hanno uccise tutte per mangiarsele».
MENTRE CI ATTARDIAMO tra capre e i capretti veniamo a sapere che il territorio del Parco dell’Upemba è stato individuato dal governo congolese come uno dei 27 blocchi aperti alla prospezione petrolifera. In questa fase di ridefinizione degli equilibri energetici mondiali il petrolio congolese è oggi quanto mai appetibile.
Per cercare di evitare le trivelle, l’unica possibilità del Parco è candidarsi a diventare patrimonio dell’Unesco.
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