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I braccianti maledetti del tè indiano

Storie Una serie di strane morti nello stato dell’Assam hanno fatto accendere i riflettori sulle condizioni di lavoro dei raccoglitori di foglie della popolare bevanda. E sulle ancora vive pratiche coloniali

Pubblicato circa 6 anni faEdizione del 4 ottobre 2018

Maago mur kenekua lagise, «oh madre mia, mi sento male!», queste furono le ultime parole pronunciate da Belamati Tasha a suo marito Naandal, che giaceva addormentato al suo fianco, poco prima che la morte improvvisa la portasse via intorno alle 3 del mattino di quel maledetto 12 febbraio, 2018. Entrambi raccoglitori di tè, Belamati e Naandal trascorrevano le loro giornate a raccogliere le foglie dell’aromatica pianta per l’azienda inglese Tea Grobe, nel Doyang, una delle sei tenute dell’azienda collocate nello stato dell’Assam, India.

Mentre Nandal si lamenta per non essere riuscito a salvare la vita della moglie, la disgrazia lo accompagna nuovamente. Muoiono prima la madre e poi il fratello, a distanza di brevi giorni. Entrambi lavoravano alla Tea Grobe company, e risiedevano nelle colonie dell’azienda. «Non c’erano precedenti sintomi di malattia, semplicemente vomitavano e hanno perso la vita prima che potessi raggiungere l’ospedale», piange Naandal in uno stato di paralisi.

IL CASO NON FU ISOLATO: dal 12 febbraio al 16 marzo dell’ultimo anno sono state 22 le morti registrate nella tenuta del Doyang; tutte in un silenzio assordante e avvolte in una enorme nube di mistero.
La Tea Grobe, una delle più antiche aziende di piantagione del the dell’Assam, impiega 1.500 operai. Come in tutte le aziende del tè in Assam, la maggior parte dei lavoratori sono donne, e le condizioni igienico sanitarie dei loro campi sono estremamente degradanti e indegne.

I BRACCIANTI DEL TÈ o bagania, come viene comunemente indicato dalle genti del luogo, sono una delle comunità più povere dell’India. Il loro destino è stato deciso più di un secolo fa, quando i coloni inglesi prelevarono gli adivasi, o comunità tribali, dalle loro terre natie nelle foreste centrali dell’India, per portarli a lavorare nelle piantagioni del tè nello stato est dell’Assam. Le tribù del tè includono Munda, Oraon, Kharia, Santhal e altri. Strappati dalle loro terre e forzati a ritmi inumani, gli adivasi si trovarono in una condizione di semi schiavitù, costretti a firmare contratti di lavoro che prevedevano condizioni di terribile sfruttamento. La coltivazione del tè divenne un progetto coloniale, o Planter Raj. Una delle prime aziende avviata nel territorio dell’Assam fu la Compagnia Britannica delle Indie Orientali, una delle più potenti compagnie commerciali europee, che partendo dal 1837 rese operativa la prima piantagione di te nello stato. Dal 1850 l’industria del tè vide una rapidissima espansione, con un enorme aumento della produzione. Vaste aree furono disboscate per creare nuove piantagioni e, ai primi del ‘900, l’Assam divenne la principale regione produttrice di tè al mondo.

OGGI L’INTERA POPOLAZIONE degli adivasi (o bagania) nell’Assam ammonta a circa 6 milioni e, secondo un rapporto del 2016 della Fian International, il loro stato di salute, l’istruzione e il loro reddito sono tra i più bassi di tutto il sub-continente indiano. Inoltre, continuano numerose le discriminazioni che ancora oggi porta questa comunità ad essere ignorata, umiliata e isolata. La stessa che produce ogni anno più di 500 milioni di chili di tè, utilizzati dalle più grandi aziende, come la Twining, la Lipton e la Tetley.

LA RELAZIONE TRA PADRONE E BRACCIANTE è spesso quello del vassallaggio e la loro condizione di servilismo è chiara dalle interviste rilasciate dalle autorità locali quando interpellate sulla scomparsa delle numerose vittime della Tea Grobe company. «Queste persone fanno un abuso costante di alcool, ed è questo il motivo della loro morte», commenta il direttore del dipartimento, Mr. Rajat Das, scaricando tutte le responsabilità sui lavoratori. Lo stesso venne ripetuto dal primario dell’ospedale che, senza effettuare, come da regolamento l’autopsia, ha continuato a sostenere la infondata teoria. Un rapporto firmato dai medici dell’ospedale accusa l’alcol tossico e malattie come la tubercolosi e l’ipertensione, che causerebbero «danni agli organi» e li condurrebbero alla morte. Ma di alcool non muoiono le donne e i bambini, come accadde a Doyang Tea Estate, e di alcool non si muore in venti in un solo mese.

IL COMITATO DEGLI STUDENTI che appoggia la comunità degli adivasi denuncia le terribili condizioni umane in cui si riversano questi lavoratori. Un reportage della Bbc ha mostrato come i quartieri dove abitano gli adivasi sono generalmente fatiscenti, e l’inesistenza di servizi igienici, l’assenza di un sistema di drenaggio o di fognatura sono solo alcune delle caratteristiche di questi luoghi dimenticati. Inoltre, sono numerosi i bambini che soffrono di malnutrizione e alta è la mortalità infantile. Secondo gli esperti, tutto ciò è dovuto a una condizione di povertà, malnutrizione e mancanza di strutture igienico-sanitarie di base. «Non ci danno maschere per lavorare, e siamo costretti a mandare avanti il lavoro anche senza alcuna precauzione», si lamenta Purnima Ghasi, vestita di bianco e illuminata dalla sola luce sospesa tra i due muri delle piccole stanze. Sostanze chimiche e tossiche non solo si riversano sulle loro terre ma sul lago di Doyang, maggiore risorsa peschiera del luogo e fonte di acqua quotidiana.

QUESTE COMUNITÀ, oggi ancora in uno stato di semi schiavitù, sono tutelate dal Plantantion Labour Act del 1951, che dovrebbe garantire loro diritti e salvaguardare i loro interessi, inclusi acqua potabile, bagni per uomini e donne, dimore e servizi sanitari; ma oggi il proliferare di violazioni legislative di ogni genere da parte dei proprietari terrieri continua a ignorare queste disposizioni legali. La paga irrisoria, meno di 2 euro al giorno, è appena sufficiente a consentire la sopravvivenza, e risulta essere estremamente inferiore alla paga minima garantita dal governo Indiano. A causa della poca istruzione i lavoratori non sono in grado di dedicarsi ad altri mestieri, e se si ribellano vengono spesso messi a tacere. Come successe nello scorso gennaio ad un gruppo di 11 lavoratori delle piantagioni del tè in un altra tenuta sempre nel distretto di Bogaghat, che vennero feriti a colpi d’arma da fuoco per aver preteso l’incremento di una paga maggiore ed equa.

SAMEER TANTI, UN POETA ADIVASI discendente di questi luoghi, li definisce «discriminati e segregati». Sono stati in gran parte tenuti isolati dalla società dell’Assam e le aziende che dovrebbero essere responsabili della loro tutela continuano a portare avanti un progetto coloniale mai svanito. «Nessuno era lì prima che tu venissi; nessuno sarà lì dopo che te ne sarai andato; siamo per sempre un singhiozzo silenzioso», recita Samer Tanti nei suoi versi.

Mentre le donne, con i cestini pieni di quelle foglie aromatiche verdi, camminano a piedi scalzi nelle tenute che le tiene quasi prigioniere, dall’altra parte del mondo il loro aromatico sapore viene degustato dai più illustri e celebri personaggi. Accompagna le tavole di noi cittadini che, ignari di questo mondo coloniale, assaporiamo in silenzio il suo aromatico e carismatico gusto decisivo.

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