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La lotta di Genova non finisce

La lotta di Genova non finisceCarlo Giuliani, disarmato, fu ucciso da un carabiniere il 20 luglio 2001 durante le manifestazioni contro il G8 a Genova. Il carabiniere è stato assolto – Luca Bruno Ap /LaPresse

Movimenti Al G8 del luglio 2001 la polizia tornò a sparare in piazza, la tortura fu praticata su larga scala, le garanzie costituzionali furono sospese. Ma quel patrimonio di lotte non si dimentica. E continua. «Lavora- consuma-crepa», quello slogan dei movimenti, beffardo, svela che in realtà sta crepando un modello di società. La storia non è finita, ma si deve rompere la congiura del silenzio

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 21 luglio 2020

In questo smemorato e superficiale paese, il ricordo – la lezione – del G8 di Genova del 2001 non fa parte del discorso pubblico. Non se ne parla, non se ne discute.

Eppure, nella calda estate di 19 anni fa si consumò un’esperienza politica dalle molte facce, che dice ancora molto, moltissimo del nostro presente e del nostro futuro.

Nel luglio 2001 fu interrotta sul nascere un’esperienza nuova, originale, promettente: un movimento di movimenti che criticava con competenza e su scala globale il modello neoliberale.

Era la prima, importante critica alla globalizzazione economica dilagante. Pur di stroncare quell’esperienza che cresceva fra le persone e attraversava le frontiere, fu accantonato lo stato di diritto.

A Genova le forze di polizia tornarono a sparare in piazza e un carabiniere uccise un ragazzo disarmato, Carlo Giuliani; la tortura fu praticata su larga scala (leggi la sentenza della Corte di Strasburgo sulle torture alla Diaz) e per più giorni; le garanzie costituzionali e l’habeas corpus furono sospesi.

Fu un’apparente vittoria dei poteri costituiti, ma in realtà una caporetto della politica istituzionale, un drammatico punto di caduta delle democrazie occidentali, che in Italia come nel resto d’Europa e negli Stati Uniti non ascoltarono le critiche e anzi le criminalizzarono, prima di annegarle nel sangue.

Stiamo ancora pagando quel tragico errore. Il collasso climatico in corso, le crescenti diseguaglianze sociali, lo svuotamento delle democrazie e da ultimo l’esplosione della pandemia da coronavirus – effetto diretto dell’attacco agli ecosistemi e alla dignità della vita animale – dimostrano quanto abbiamo bisogno di un radicale cambio di rotta. Di pensieri nuovi, di modelli sociali diversi, fuori dall’ottuso perimetro disegnato dall’ideologia neoliberale con le sue consunte parole d’ordine: crescita, mercato, deregulation, meritocrazia, traducibili nel beffardo e amaro controslogan «lavora- consuma-crepa».

Stiamo davvero crepando. Crepano gli «scarti» della storia, i profughi di guerra e i rifugiati ambientali, crepano gli esclusi dal banchetto allestito dai finanzieri e dai tecnocrati del neoliberismo tuttora dominante, crepano anche gli sfortunati – perfino nel primo mondo – colti dal contagio e poco o mal curati da sistemi sanitari svuotati e privatizzati.

In realtà sta crepando un modello di società, e tutti o quasi tutti lo sappiamo, ma è in atto un tentativo di rianimazione. I poteri forti, cioè i poteri reali, non intendono cedere alcunché: vogliono che tutto continui come sempre e che ogni crisi sia superata.

Anche al prezzo di contraddire i propri dogmi: salvando le banche private con fiumi di denaro pubblico nel 2008, eliminando vincoli di bilancio e ogni altro impaccio al tempo della pandemia, pur di ricominciare come prima più di prima, quindi più consumi, più viaggi, più crescita, più disuguaglianze, più scarti della storia e al diavolo il clima, i virus, la cura della vita sul pianeta. Destra e (ex) sinistra sul punto sono concordi.

Perciò non si parla, non si discute, non si ricorda il G8 di Genova. Perché in quel tempo, a cavallo del millennio, il modello neoliberale fu messo finalmente a nudo e milioni di persone, attraverso i continenti, scesero in piazza per dire che un altro mondo era possibile.

Cominciarono anche a praticarlo, a sperimentarlo, quel mondo, e a proporre soluzioni concrete, perché non erano – non eravamo – degli ingenui sognatori, e tanto meno degli sciocchi teppisti, come si tentò di far intendere.

A Genova nel 2001 per giorni nei seminari e negli incontri pubblici si parlò della crisi del debito pubblico e dei possibili rimedi, di una tassa sulle speculazioni finanziarie, dello strapotere di una «troika» al tempo sconosciuta (Banca mondiale – Fondo monetario internazionale – Organizzazione mondiale per il commercio), di sovranità alimentare e agricoltura contadina, di diritto d’espatrio e di migrazioni, di guerre incombenti, dell’acqua come bene comune e di esclusione dei brevetti dai farmaci essenziali per affrontare le malattie epidemiche.

Questo patrimonio di esperienze e di idee è ancora a disposizione. Nuovi movimenti potranno – dovranno – farne tesoro, rompendo la congiura del silenzio che le classi dirigenti stanno calando, più ottuse e violente che mai, sul pensiero divergente.

La storia non è finita, tutto deve cambiare e quindi tutto dobbiamo ricordare, anche come è andata a finire: con le democrazie che mettono da parte costituzioni e libertà civili.

Il resto, cioè tutto, è lotta politica da condurre sul piano delle idee e facendo tesoro di quanto imparato in questi anni: la forza delle reti sociali, la creatività dei movimenti, la generosità delle persone.

La memoria, diceva uno slogan in voga negli anni seguenti il G8 genovese, è un ingranaggio collettivo. Oggi possiamo aggiungere: e una risorsa preziosa.

* Comitato Verità e Giustizia per Genova

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