La lingua ibrida di Stefano D’Arrigo arriva in Francia: tradotto «Horcynus Orca»
«Nessun problema è tanto intimamente connesso alla letteratura e al suo modesto mistero quanto quello posto da una traduzione»: questa frase di Borges (la cui firma è in quel malizioso e quantomai sincero aggettivo, modesto) apre in epigrafe Dopo Babele, capolavoro di George Steiner. Il grande critico francese, scomparso pochi anni fa, sarebbe entusiasta di sapere che da poco è disponibile in una delle sue lingue una versione di Horcynus Orca, che lesse in italiano e definì «la risposta europea al Moby Dick di Melville».
Dopo alcuni, iniziali tentativi sfortunati, annunciato ufficiosamente più di un decennio fa, il progetto di trasportare in francese il viaggio di Ndrja immaginato da Stefano D’Arrigo è stato infatti portato a termine. Lo ha pubblicato, in una curatissima veste grafica, Le Nouvel Attila, editore fondato nel 2009 e oggi controllato dal gruppo Seuil, nella traduzione di Simone Baccelli e Antonio Werli, che si sono avvalsi della collaborazione di una équipe di lettori e di editor.
Un solo precedente: in Germania, Horcynus Orca era uscito nel 2015 per Fischer Verlag, tradotto da Moshe Kahn, il quale aveva lavorato per un decennio alla versione tedesca, proseguendo in solitaria anche dopo che il primo editore con il quale si era accordato, in Svizzera, aveva dichiarato fallimento. Quella di Fischer era finora l’unica edizione in lingua straniera. Sarebbero in cantiere per gli anni a venire, già a buon punto – ma per D’Arrigo il condizionale è d’obbligo – versioni in inglese, castigliano e catalano.
Raccontando «il modesto mistero» di D’Arrigo, Antonio Werli ha detto della sua lingua che è a metà strada tra l’italiano e il «D’arrigot», giocando sul vocabolo che indica in francese il gergo (argot) e, grazie a Céline, occupa un posto d’onore nella storia della letteratura francese. Impasto di messinese, italiano colto e colloquiale, con infiltrazioni europee (dal greco al francese all’inglese del «ferribò») la musica dello scrittore siciliano si rinnova così in un nuovo spartito, e mostra sotto nuova luce parte della sua bellezza, che è essa stessa, ab origine, un tentativo di traduzione: della esperienza umana tout court, vissuta come un viaggio tra flutti ostili o placidi, delfini sfuggenti o assassini, all’ombra della grande fera che attende alla meta: «C’était l’Orque, celle qui donne la mort», nella versione di Werli e Baccelli.
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