Visioni

La lezione di Mariangela Gualtieri

La lezione di Mariangela GualtieriMariangela Gualtieri foto © Melina Mulas

INTERVISTA Il suo rito sonoro «Voce che apre», con la guida di Cesare Ronconi, domani al Goldoni di Venezia per l’inaugurazione della Biennale Teatro che si concluderà il 25 settembre. «Lo sguardo appassionato che ci fa scoprire la meraviglia del mondo, fa nascere in noi quasi naturalmente rispetto e compassione, ed è calmo, entra nel millimetro»

Pubblicato circa 4 anni faEdizione del 13 settembre 2020

Quest’anno la Biennale Teatro si inaugurerà a Venezia domani per concludersi il 25 settembre. Sarà Voce che apre, il rito sonoro di Mariangela Gualtieri, con la guida di Cesare Ronconi, a dischiudere la quarantottesima edizione, al Teatro Goldoni alle ore 16. La generosità delle sue numerose sillogi accompagna ormai da tempo lettrici e lettori affezionati e abituati alla sua rara capacità di interpellare il mondo. Ascoltare Mariangela Gualtieri, la pausa del verso che con devozione lambisce l’accadere in presenza, osservare il movimento del suo pegno d’amore, è esperienza sensoriale di gioia che in tanti le riconoscono.

Il suo rito sonoro, composto per la maggior parte da versi inediti, ha nel titolo un termine importante: la voce. In questi anni, sia nell’elemento orale che nella scrittura, è stata consegnata all’«Antenata» (esordio poetico del 1992, per Crocetti) poi alle creature piccole, infine al vivente ovvero ogni ente del reale. Che cosa può aprire una voce?
Incanto fonico, lo chiamava Amelia Rosselli e a me sembra l’espressione più giusta per dire, per suggerire la meraviglia e i poteri della voce. Ma anche la fiaba, con la sua sapienza travestita, ci dice che le formule magiche vanno pronunciate, vanno fatte passare dentro la voce, altrimenti restano inefficaci, schiacciate dentro i libri. Lo stesso per la rivelazione vedica, ad esempio, che si attua solo sul piano sonoro: bisogna pronunciarli i mantra, bisogna trasformarli in voce per liberarne l’efficacia. La poesia è per me parola magica, cioè parola dotata di poteri che possono agire sulla materia, anche se la materia è in questo caso la sostanza sottile della nostra interiorità, ed è musica e dunque chiede di divenire forma sonora, di passare attraverso l’orecchio, di compiersi nel dono che ne fa la voce. Ringrazio Antonio Latella che in questa coraggiosa Biennale ha insistito per una apertura incentrata sul verso e sulla voce, quasi come rito d’accoglienza e di ascolto pieno.

In che modo il teatro le ha permesso di distinguere i corpi e l’esclusività della poesia e come i due elementi, i corpi e la poesia, sono prossimi?
Corpo e poesia sono forse legati proprio dalla voce la quale è ad un tempo fatta di respiro, di sfregamento di carne, e quando interviene la parola, di risonanze e rimandi astratti. L’amatissimo teatro è stato decisivo per la mia nascita poetica e in teatro fin dall’inizio, i miei versi sono nati per essere subito pronunciati da qualche faccia che era lì ad aspettarli. La poesia si è subito incarnata nei corpi, grazie al lavoro di Cesare Ronconi che vuole solo versi per la sua scena.

Il «Monologo del non so» (in «Fuoco centrale e altre poesie per il teatro», Einaudi 2003) è una conversazione profonda sulla condizione umana, un occhio che attraversa l’imperfezione e per questo possiede coscienza sottilissima; è il movimento del divenire che pensato e vissuto passa e trova misura. Quanto questo «non sapere» l’ha messa al riparo dalla deriva e le ha concesso di stare salda?
Parlo di un non sapere che comunque ha attraversato la tradizione, che la ha amata, che ha studiato i poeti, i filosofi e che poi, socraticamente, più si addentra nella conoscenza e più riconosce la vastità della propria ignoranza. Ma non è solo questo. Credo che il femminile sia capace anche di saltare umilmente fuori dal sapere razionale e abitare poeticamente un profondo ‘non so’, il lato misterioso del nostro essere nella vita. E anche di provare, in questa dimissione, una gioia, invece che un sentimento di impotenza.

Il poco e il niente che appare come giuramento in «Senza polvere senza peso» (Einaudi, 2006) per salvare la propria delicatezza è simile alla richiesta d’amore in «Paesaggio con fratello rotto» (Luca Sossella, 2007) e quel poco si trasforma in cura, attesa come in «Caino» (Einaudi, 2010) quando segnala la pausa della terra che respira, con fatica. Sembra questo poco e niente una speciale traiettoria di ciò che conta, che resta e si fa avanti, come una necessità.
L’attenzione al poco e niente viene dalla lezione di Anna Maria Ortese, oltre che dalle metafisiche orientali. Io credo che proprio la mancanza di cura nella sfumatura, nel poco poco, la trascuratezza ci porti poi ad un indurimento, ad una sommaria visione dell’altro e dell’altro non umano. Credo che lo sguardo appassionato, quello che ci fa scoprire la meraviglia del mondo e che quindi fa nascere in noi quasi naturalmente rispetto e compassione sia uno sguardo calmo che entra nel millimetro. La mancanza di cura è comunque inevitabile quando si è immersi nella corsa micidiale nella quale tutti noi siamo intrappolati, perché l’attenzione al poco e niente richiede lentezza, contemplatività, pazienza, dimissione.

In «Ringraziare desidero» (testo contenuto in «Le giovani parole», Einaudi 2015) lei accenna alla bellezza delle parole come «natura astratta di dio», riferendosi forse alla radicalità del lavoro poetico, l’innocenza delle parole che nascono, precedenti all’utilizzo, una qualità sorgiva cui essere dedite e in cui ancor prima di essere nominate compaiono, esistono. Come le cose. C’è da essere riconoscenti anche di questo?
Sono grata per questa domanda che entra dentro una ferita per me bruciante, soprattutto in questo tempo di parole tutte sottoposte al sacrificio della comunicazione, come se il linguaggio ci appartenesse. Ma siamo noi ad appartenere al linguaggio. È la parola che fa di noi ciò che siamo. È la parola che ci cresce, ci sostanzia, ci forma, nutre e potenzia la nostra parte più umana. E insieme ad essa tutto il silenzio da cui si genera. La bellezza delle parole come natura astratta di Dio non è farina del mio sacco – purtroppo non ricordo in questo momento a chi debbo gratitudine per questo verso. Anche se la parola Dio è assai ingombrante ed è quasi tabù per il mio pensiero, qui risuona di una vastità cosmica, al di fuori dei culti, e assegna alla parola la sua leggendaria genealogia. E comunque sono infinite le cose di cui essere grati.

La forma di preghiera che assume lo stare al mondo per abitarlo emerge bene in «Quando non morivo» (Einaudi), la sua ultima silloge, ma anche in «nove marzo 2020», pubblicata il giorno seguente il primo lockdown. Ciò a cui si rivolge è la presenza attenta, si cova, si nutre, si perde e poi luccica di nuovo. Fare attenzione, lo insegna, non ha niente di urgente anzi, tutto di lento e minuscolo, è tessitura di pazienza. Quanto conta, proprio oggi, mettersi in ascolto di sé e dell’altro?
Sì, è l’attenzione come «preghiera spontanea dell’anima», come messa in risonanza di sé con l’altro da sé. Tutto ci indica che c’è un unico grande universale concerto e che chi stona viene forse messo fuori dal gioco. Noi stiamo sensibilmente stonando e una delle cause è sicuramente la velocità nella quale ci siamo condannati a vivere. Questa velocità ci rende infelici e, come dicevo, grossolani, lo abbiamo capito gustando anche le lentezze a cui siamo stati obbligati nei mesi scorsi. Forse il fatto è che non c’è propriamente un ‘altro da sé’: noi siamo tenuti in vita, dentro la vita, da innumerevoli altri organismi che in qualche modo si fanno noi. E alla fine, disfacendoci, torniamo ad impastarci dentro un grande mistero. La terra è bellissima, un raro tiepido nido colmo di vita che ruota nel gelido spazio interstellare. Se potessimo guardarla per quello che è, ne nascerebbe un amore rispettoso e grato. Lento, piccolo, pazienza, lentezza… sono tutte parole più legate al femminile. E forse è tempo che il femminile si esprima in tutti i suoi migliori attributi, troppo a lungo soffocati, taciuti, denigrati e compressi.

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