Tra le guerre più importanti nei cinquanta anni dopo la seconda mondiale c’erano state la Korea nel 1950, il Vietnam nel 1955 e la prima guerra del Golfo nel 1990. Per ricominciare in Europa bisognava aspettare nel 1991 le guerre che seguirono tra Serbia, Slovenia, Croazia e Bosnia, che in quattro anni nella Jugoslavia dopo Tito fecero più di 100.000 morti. Anni drammatici contrassegnati da scontri armati e stragi etniche, come a Sebrenica dove nel 1995 furono massacrate sotto gli occhi dell’ONU più di 8000 persone. Dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica le pressioni sugli equilibri in Europa si facevano sentire e sugli scenari di guerra molte cose erano in ballo. La Russia era impegnata nella guerra in Cecenia e gli Stati Uniti inviavano armi ai secessionisti albanesi. Fino al 1999, quando la NATO senza il consenso delle Nazioni Unite, decise di imporre la presenza su tutto il territorio jugoslavo di 30.000 truppe militari di peacekeeping con l’immunità per la NATO e il diritto gratuito di usare tutte le strade, le ferrovie e gli aeroporti per ogni tipo di spostamento. Il rifiuto jugoslavo di firmare gli accordi di Rambouillet offrì alla NATO la giustificazione per usare la forza e il 24 Marzo 1999 iniziavano i bombardamenti sulla Repubblica Federale di Jugoslavia.

Le news
Qui inizia la mia esperienza personale, fatta anche di informazioni privilegiate per aver lavorato a contatto con i corrispondenti di moltissime reti televisive internazionali per tutto il 1999. Ero montatore e operatore con l’EBU-European Broadcasting Union, nelle operazioni news a Belgrado, Szeged in Ungheria, a Podgorica in Montenegro, a Kumanovo al confine tra Macedonia e Kosovo, a Pristina all’inizio dell’occupazione militare. Avevo già lavorato per l’EBU a Pozzuoli di fronte al comando generale della NATO quando un amico di Roma che faceva il coordinatore delle operazioni news EBU mi disse di telefonare a Ginevra perché cercavano un freelance italiano per una prossima missione a Belgrado. Il mio passaporto italiano sembrava essere più gradito (temporaneamente prima di Aviano) ai funzionari del ministero degli esteri Jugoslavo. Così sono arrivato all’hotel Intercontinental, che oggi si chiama Crown Plaza, per la cronaca dove nel 2000 sarebbe stato assassinato Raznatovich Arkan il noto criminale delle forze paramilitari serbe.

Il coordinatore dell’operazione era il belga Bruno Beckman insieme a Ivan Stojanovic appena assunto a Belgrado. All’EBU di Ginevra evidentemente sapevano molto di quello che sarebbe successo e avevano anticipato gli eventi predisponendo con buon anticipo la newsroom di trasmissione up-link all’hotel Intercontinental. Bisogna dire che per una settimana, dopo l’installazione dei sistemi TV il lavoro era molto poco, pochissimi i giornalisti e a Belgrado si viveva un atmosfera di attesa molto preoccupata. Ma come spesso in questi casi c’era nell’aria quasi una incredula euforia e tutti uscivano di casa, andavano a feste e concerti o a cenare al ristorante cinese sul grande barcone galleggiante sulla Sava, dove sulla passarella all’ingresso c’era appeso un gigantesco ritratto di Mao Tze Tung, che già quasi stava per diventare pop.

L’annuncio
Una situazione che però è durata poco, da noi a un certo punto sulla terrazza dell’hotel con gli stand-up delle dirette per le televisioni di tutto il mondo arriva un gruppo di almeno 20 militari americani, guardie del corpo e generali in divisa, tra questi Richard Holbrook che aveva appena rotto le trattative con Milosevic e ironia della sorte, intervistato da Cristiane Amanpour, annunciava l’inizio della guerra dalla mia telecamera. Si dice che per convincere Milosevic ad arrendersi il delegato negoziatore finlandese Martii Ahtisaari abbia sgombrato con una scena teatrale il grande tavolo di tutto quello che c’era sopra dicendo a Milosevic che se non si arrendeva la Serbia si sarebbe ridotta così. Il giorno dopo il segretario generale della NATO Javier Solana dichiarava guerra alla Repubblica Federale di Jugoslavia.

Subito nel primo pomeriggio una squadra della polizia speciale armata del ministero degli interni irrompe nella nostra newsroom, danno un pugno a Bruno che chiedeva spiegazioni, strappano i fili delle apparecchiature e confiscano tutto, anche la telecamera di un operatore di passaggio del TG1. Cristiane Amampour entrava per caso in quel momento ma riusciva a telefonare in diretta sulla CNN chiusa nel bagno della nostra suite all’Intercontinental, mentre il montatore Delimir Babic che lavorava nella stanza a fianco si era chiuso per non essere disturbato e quando si è affacciato sul corridoio ha richiuso subito senza che si accorgessero di lui. Lo stesso accadeva a Reuters e AP, a quel punto nel nostro caso si decideva di partire in macchina per Szeged in Ungheria dove stava per arrivare da Budapest un mezzo con le attrezzature tv per continuare a trasmettere da lì. Ci portava un autista con una macchina a noleggio, io e Richard l’uplinker (addetto ai collegamenti)inglese e proprio mentre passavamo in autostrada vicino a Novi Sad la visione surreale e muta all’interno della Mercedes insonorizzata, delle prime bombe su una raffineria a poca distanza da noi. In città sarebbero stati tre i ponti distrutti sul Danubio. Bruno e Ivan erano rimasti a Belgrado, giravano in macchina su e giù per decidere sull’offerta di Jeff Dubin Il capo di EBU News, che gli offriva Ivan di continuare a lavorare a Ginevra come rifugiato con famiglia. Si decidono con un po’ di ritardo per il pollo congelato che Snezena sotto shock voleva portare con sé temendo una situazione difficile, poi hanno deciso di restare. Io e Richard eravamo arrivati indenni in Ungheria ma abbiamo saputo poi che diversi giornalisti erano stati malmenati nei molti posti di blocco che hanno incontrato.

È però l’arrivo al Grand Hotel di Szeged la situazione più surreale. Nella lobby e nella gran sala era in corso un’affollata festa universitaria con concerto rock. Fino all’alba, mentre tutta la notte continuavano ad arrivare numerosi i giornalisti internazionali che scappavano, qualcuno anche conciato male. A quel tempo leader del partito radicale della grande Serbia e ministro dell’informazione era Aleksandar Vucic, l’attuale presidente della Serbia, e Ivan mi racconta oggi al telefono che in quei giorni aveva ricevuto il comunicato ufficiale con il quale non si garantiva l’incolumità dei giornalisti stranieri.
Intanto continuavano i bombardamenti degli aerei che decollavano da Aviano in Italia e dalla Germania. In 72 giorni ci sono stati più di 10.000 bombardamenti, alcuni dei quali molto precisi come quello del 23 Aprile quando un missile Cruise sganciato da un B52 centrava la TV di Stato RTS uccidendo 16 dipendenti, specialmente tecnici del turno di notte negli studi televisivi. Mi dice al telefono Ivan Stojanovic che la parete squarciata e i danni del missile sono stati lasciati così come allora per ricordare il bombardamento.

Non si può dire lo stesso per il quartier generale dell’esercito, bombardato e poi lasciato in abbandono molti anni. Già nel 2016 il complesso è stato nelle mire di Donald Trump per farci un hotel di lusso e oggi come riporta il New York Times di aver ricevuto una copia del progetto, del genero di Trump Jared Kushner, con un accordo di una concessione gratuita di 99 anni per costruirci hotel, unità residenziali, negozi e un museo proprio sul posto che hanno bombardato loro venticinque anni prima. Per essere precisi non proprio loro ma Blair e Clinton sì. Un altro bombardamento molto mirato c’è stato il 7 Maggio quando è stata centrata l’ambasciata cinese a Belgrado, con tre giornalisti morti e 20 feriti. Il segretario della difesa USA spiegò che la causa dell’errore erano delle mappe non aggiornate, ma è vero che il bersaglio era stato scelto dalla CIA fuori dalle procedure normali della NATO. Il governo cinese condannò il bombardamento come un atto barbarico, con le scuse di Clinton per l’incidente. In quei giorni sono stato anche in Olanda al Tribunale Penale Internazionale dell’Aja dove la Jugoslavia si era appellata come stato sovrano che non era uscita dai propri confini.

Ricordo i quattro giudici arrivati da Belgrado, due uomini e due signore, molto distinti tutti e quattro con attaccato al bavero il simbolo tondo del target, come quello dei cittadini di Belgrado sui ponti, per dire che il bersaglio erano loro. Si opponevano ad una schiera di giudici internazionali ermellinati che naturalmente hanno rigettato la legittimità della richiesta di interrompere i bombardamenti. Molto grave l’episodio del treno civile bombardato a Grdelica con 20 passeggeri civili uccisi. Con le scuse del generale Clark per il malinteso di un obiettivo secondo loro legittimo e l’equivoco dell’attacco di due missili di precisione Tomawk lanciati da un F-15 che è tornato sparando due volte sull’obiettivo.

A Podgorica
Intanto le missioni EBU si spostavano e il viaggio da Szeged continuava attraversando tutta la Croazia, con ben visibili i resti delle case distrutte nella guerra precedente, per arrivare a Podgorica e trasmettere dalla TV di stato del Montenegro e poi dal confine con la Serbia a Kumanovo seguire le trattative di pace che erano in corso tra i generali della Nato e quelli di Milosevic, in un campo militare assediato da decine di troupe televisive di tutto il mondo. Per giorni niente di fatto e i generali sono tutti spariti per 48 ore, poi sono tornati e hanno firmato la resa. Di quei giorni anche un particolare episodio che ho letto su una pagina di Newsweek di un mese dopo che raccontava di due resistenti dell’UCK che si erano infiltrati nei boschi del Kosovo poco lontano dove era rifugiato un grosso contingente di giovanissimi soldati Serbi. Con il Gps comunicarono la loro posizione e in pochi minuti arrivarono i B52 che ammazzarono tutti, compresi i due albanesi. Ci si può immaginare il terrore di notte nel bosco. Chissà se ha influenzato le trattative, una notizia che però non è facile verificare, io però ricordo molto bene di aver letto proprio questo su Newsweek, purtroppo non trovo più la rivista che avevo conservato ma, forse è possibile rintracciarla.

In Kosovo
Così con un’auto blindata e due furgoni bianchi siamo entrati in Kosovo in mezzo ad un grande convoglio di carri armati inglesi e truppe Peshmerga. Evidentemente anche in guerra ci si può sbagliare e la colonna di mezzi si è imbottigliata in un fangoso cul de sac di una fabbrica abbandonata, così il nostro gruppo, di cui facevano parte anche una jeep con un ufficiale inglese e una tenente canadese, addetti stampa che ci scortavano tra i villaggi senza anima viva per raggiungere la pista dell’aeroporto di Pristina dove si prevedeva una conferenza stampa. Eravamo molto disturbati dal fatto di mettere a disposizione dei comandi militari le nostre attrezzature.

Al nostro seguito c’era anche un’altra autovettura con a bordo due misteriosi figuri che si erano portati molte provviste alimentari che ci offrivano generosamente. Qualcuno diceva che avevano delle valige piene di soldi per andare a comprare il Grand Hotel di Pristina… Ormai era già tardi, sulla jeep controllavano le mappe e chiedevano istruzioni al telefono. Poco prima di mezzanotte passiamo indisturbati a fianco di un grande convoglio di carri armati canadesi, non ci ferma nessuno ma improvvisamente un po’ di chilometri più avanti sono i russi che ci fermano e ci intimano di non uscire dalle macchine fino all’alba, sulla pista dell’aeroporto di Pristina. Erano pochi mezzi corazzati su ruote che velocemente dalla Bosnia erano arrivati per primi in quel posto strategico. A parte la tensione iniziale quasi ci scappava un incidente internazionale con la Russia, ma si è almeno chiarito subito l’accordo per far evacuare dal Kosovo una grossa armata Serba. Per tutta la giornata è stato un crocevia di mezzi pesanti che lasciavano la pista dove stavano allineati e un susseguirsi di transiti di profughi civili a piedi e su autobus locali. Dalle colline lì intorno scendevano anche degli sparuti soldati serbi molto stracciati, la guerra era finita. A quel punto in una situazione così speciale decidiamo di montare telecamera e cavalletto sul tetto del furgone e mandare in onda la scena in diretta per due ore. Vado io sul tetto e per qualche motivo decido di non mettermi il giubbotto antiproiettile, pensavo che se c’era un cecchino fanatico nascosto da qualche parte mi avrebbe fatto fuori lo stesso, ma è un fatto che durante tutta la guerra della NATO da parte della Jugoslavia non è stato sparato un solo colpo di fucile.

Così la missione di Eurovisione News continuava nella newsroom allestita dentro il negozio del barbiere del Grand Hotel di Pristina. Un mese lì in un susseguirsi di situazioni post belliche di occupazione militare e di missioni KFOR, ho perfino incontrato nella lobby dell’hotel due esponenti Talebani con barbe e camicioni, ad un certo punto anche loro arrivati per non so quali interessi politici.

La prossima volta da Pristina sarebbe stato il collegamento di un importante Capodanno 2000 ma già pochi mesi dopo la fine della guerra, almeno per i festeggiamenti ci si è dimenticati tutto. Era molto difficile salire sul satellite per la grande concorrenza di tutte le Tv che volevano mandare in onda i propri fuochi d’artificio da tutto il mondo. I giornalisti sul posto erano molto pochi, ricordo un solo corrispondente turco con me a mezzanotte sulla terrazza dell’hotel che disperatamente cercava di andare in onda. Accucciato a terra sotto il vento di un violento temporale di fine anno. Da lì a pochi anni ci sarebbe stato il crollo delle due torri a New York, l’Afghanistan e l’Iraq saranno le guerre che verranno.