La notte elettorale in Serbia è la cronaca di una vittoria annunciata. Quella di Aleksandar Vucic, rieletto presidente per la seconda volta al primo turno. Alle parlamentari la sua creatura, il Partito del progresso serbo (Sns), ha ottenuto il 43,45% dei voti e 122 seggi in parlamento su un totale di 250. Vucic si è aggiudicato anche l’unica battaglia davvero aperta, il voto a Belgrado. Domenica scorsa infatti, si è votato oltre che per le presidenziali e per le parlamentari, anche per le amministrative in 14 città.

Nella capitale, l’Sns ha ottenuto 48 seggi all’Assemblea municipale, mentre il cartello elettorale dell’opposizione si è fermata a soli 26 seggi. Una menzione particolare va alla coalizione progressista e ambientalista di Moramo (Dobbiamo) che ha conquistato 13 seggi, un risultato che potrebbe preludere a un percorso come quello seguito da Mozemo in Croazia, affermatosi nella capitale per poi guadagnare terreno anche sul piano nazionale.

Male l’opposizione che sconta gli anni di assenza sulla scena politica dopo aver boicottato le elezioni nel giugno 2020 per denunciare la deriva autoritaria del regime instaurato da Vucic. Una decisione che si è rivelata un boomerang per gli avversari dell’uomo forte della Serbia, incapaci di proporre un’alternativa credibile e di cavalcare il malcontento che serpeggia nella società.

La chiave vincente della campagna elettorale, in Serbia come in Ungheria, è stata la spregiudicatezza con cui Vucic e il premier magiaro, Viktor Orbán, si sono presentanti in veste di «garanti della pace» dinanzi all’incombere della guerra in Ucraina.

Variabile quest’ultima che ha stravolto l’agenda politica ed elettorale, facendo scivolare in secondo piano altri temi, dalla lotta alla corruzione e alla criminalità, al rafforzamento dei diritti democratici e alla difesa dell’ambiente. A pesare anche i timori di una possibile escalation nei Balcani e le tensioni tra Belgrado e Pristina, riaccese dal conflitto in Ucraina.

Ma la vittoria di Vucic, che pure entra di diritto nella storia del paese, non è solo da leggere alla luce di una richiesta, per alcuni versi legittima, per altri complice, di neutralità, ma è anche il riflesso di una «cattura dello Stato» – dai media all’economia – operata dal presidente serbo e dalla sua cerchia.

Cattura avvenuta con la benedizione dell’Unione europea, in primis, che in Vucic vede un garante della stabilità del paese e della regione, sottovalutando però l’effetto perverso del suo modello autoritario che si innesca in tutta la regione.

Da ex ministro dell’Informazione ai tempi di Slobodan Milosevic a campione di equilibrismo tra Bruxelles, Mosca e Pechino, Vucic paradossalmente potrebbe trovarsi, dopo questa vittoria schiacciante, più in difficoltà. È possibile che la capacità del capo di Stato serbo di barcamenarsi tra le grandi potenze si riveli un’arma a doppio taglio in un mondo che va polarizzandosi.

Già la guerra in Ucraina ha messo la Serbia in una posizione scomoda sia con l’Ue sia con la Russia. Tra i due contendenti, Belgrado ha scelto una terza via: da un lato, ha votato a favore della risoluzione delle Nazioni Unite di condanna dell’aggressione russa all’Ucraina, dall’altro ha rifiutato – unico paese in Europa, insieme a Bielorussia e Bosnia-Erzegovina – di allinearsi alle sanzioni contro la Russia, invocando gli interessi nazionali, in primo luogo le forniture energetiche a prezzi scontati e il sostegno sulla spinosa questione del Kosovo.

Questo compromesso, però, potrebbe non bastare più. Proprio facendo leva sul forte mandato che gli elettori hanno conferito a Vucic, gli alleati occidentali cercheranno di aumentare la pressione su Belgrado per mandare un segnale chiaro a Mosca: allinearsi alle sanzioni, certo, ma anche scaricare l’alleato scomodo, il socialista Ivica Dacic, anima filo-russa della compagine di governo.

Un obiettivo difficile da raggiungere anche per le forti simpatie che legano il popolo serbo a quello russo. Legami cementati da ferite mai sanate, come i bombardamenti Nato degli anni Novanta, e da una macchina propagandistica che è servita allo stesso Vucic per accrescere il proprio consenso.