La guerra non è un videogioco con il diavolo
Potremmo persino arrivare a rivalutare la rete quattro house organ della ditta berlusconiana per tanti anni? O magari il telegiornale condotto con stile cabarettistico da Emilio Fede? No, non si può, ovviamente. Quel canale, scelto da Fininvest-Mediaset come il proprio braccio (simbolicamente) armato che ne fece il megafono propagandistico e il luogo di raccolta pubblicitaria a tanto al chilo, oggi è irriconoscibile.
Appuntamenti informativi e molti programmi passano via leggeri, al punto che il vecchio telecomando spesso non trova ragioni per fermarsi. Il grigiore (senza offesa a chi lavora lì) è cresciuto da quando il Cavaliere in persona – si dice- intervenne per frenare una deriva leghista e destrorsa contraddittoria con gli stessi interessi di Forza Italia.
Il talk serale Zona Bianca, condotto da Giuseppe Brindisi, non si era finora segnalato nella competizione selvaggia con i programmi omologhi, preferendo rimanere in un più tranquillo territorio mediano. Ma la scorsa domenica sera il contenitore si è impennato con il ministro degli esteri russo Sergej Lavrov. Non si trattava di questo o quel giornalista legato al neo zar Putin, utile per comporre il presepe pagano delle ospitate con la finta del pluralismo, bensì del responsabile della politica internazionale della nazione che ha aggredito l’Ucraina.
Insomma, uno dei protagonisti assoluti della guerra in corso. Si è levata, prevedibilmente, una folata di polemiche su di una vicenda che ha assunto anche contorni raccapriccianti, quanto il personaggio in questione si è avventurato sulle presunte (false) ascendenze ebraiche di Hitler, riesumando il mostruoso buco nero del novecento.
Il tema si pone, di là delle inquietanti cadute di Lavrov. L’intervista è un genere giornalistico sacrale, su cui si esercitarono maestri come Enzo Biagi o Sergio Zavoli, per pronunciare qualche nome. Parlavano con chiunque, ceffi o mafiosi o esponenti di regime che fossero, ma con un’accurata preparazione del contesto.
Se si intervista uno dei maggiori colpevoli del dramma bellico in corso, non è lecito accompagnarne le risposte con magnanima e subalterna cortesia. Lasciamo stare regole e carte deontologiche, ma occupiamoci innanzitutto del rispetto di chi guarda ed ascolta. Servono voci diverse e alternative, interlocutori, storici: un contesto ragionevole e argomentativo, non un comizio o un ring.
Non ci si sveglia oggi, perché c’è di mezzo Mediaset. Se n’è scritto varie volte, in questa stessa rubrica. Però, qui c’è l’aggravante della peculiarità dell’intervistato. Uno scoop, ha sottolineato la linea di difesa aziendale. Vero sì, e guai ad evocare qualsiasi forma di censura. Tuttavia, siamo in un quadro orribile, attraversato da fake e guerriglie semiologiche. Gran parte dell’informazione non racconta la guerra, bensì è parte della guerra.
Certamente, l’audience aumenta se si spinge sull’acceleratore della lite in diretta (spesso platealmente artefatta) o si stipula un patto con il diavolo. L’esibizione dell’orrore e della discussione a suon di insulti o l’utilizzo in chiave di spettacolo di uno che sta nel pantheon dei cattivi trascinano un po’ gli ascolti. Zona bianca raggiunge in genere il 4% all’incirca della fruizione. La puntata di domenica ha toccato il 6,5%. Non è l’unico caso. Basti osservare le curve di ascolto delle trasmissioni e si osserverà come certe presenze contribuiscano a trascinare il pubblico. Si sta esagerando. Il rischio è di trasformare la guerra in un infinito videogioco e di usare la televisione come luogo di normalizzazione della guerra e di sdoganamento dei connessi linguaggi. Il ricorso all’arma atomica è entrato nel vocabolario comune.
Insomma, l’intervista a Lavrov è una sequenza di un flusso ormai governato da un mercato selvaggio e cinico, dove non esistono né cautela né senso del limite.
Naturalmente, ora il pericolo è che all’improvviso ci si scopra duri e intransigenti, magari pretendendo che la commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai o l’autorità per le garanzie nelle comunicazioni si trasformino in tribunali speciali. E il Copasir che c’entra?
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