«Voi soldati rinunciate a tutto e rinunciate a tutto per costruire e garantire quella pace della quale in tanti soprattutto in questo momento si riempiono la bocca comodamente seduti sul divano di casa loro». Così ieri Giorgia Meloni, in visita alle truppe italiane che presidiano il confine libanese, ha provato a declinare in chiave interventista la ricerca della pace, riecheggiando il motto in giorni in cui sia in Medio Oriente che sul fronte dell’Europa dell’est la situazione sembra sul punto di precipitare.

LA PRESIDENTE del consiglio cerca di coniugare le divise con gli orizzonti di pace perché ha bisogno di sintonizzarsi con il sentimento della gran parte del paese. Che testino le posizioni sull’intervento diretto al fronte o sull’invio di armi, infatti, i sondaggisti rivelano fin dall’invasione russa dell’Ucraina che la maggior parte degli italiani è schierato dalla parte della pace e auspicano una via d’uscita diplomatica al conflitto. Questa larga area di opinione, eterogenea e trasversale, è al centro degli appetiti della gran parte delle forze politiche a poco più di due mesi dalle elezioni europee. A quei voti punta Matteo Salvini, in Ue alleato con lo spezzone dell’estrema destra che, a differenza di Meloni, non ha scelto di schierarsi sotto l’ombrello atlantista. Va letta in questa chiave la spericolata operazione del leader leghista: trasformare le imbarazzanti frequentazioni putiniane degli anni scorsi e i recenti scivoloni che mostrano ancora più di qualche ambiguità nei confronti del regime di Mosca in punti a favore, segni di predisposizione al dialogo con ciò che si muove al di là delle trincee russo-ucraine.

ALL’OPPOSIZIONE, invece, si osservano, con diverse intensità e toni non sempre sovrapponibili, le argomentazioni che appartengono alle forme del pacifismo storico. La novità degli ultimi giorni è l’attivismo di Elly Schlein. Non è un mistero che dentro il Partito democratico, ad esempio, siano scoppiate le polemiche di fronte alla proposta di candidare due personalità affine ai movimenti contro la guerra come Cecilia Strada, figlia di Gino ed ex presidente di Emergency, e Marco Tarquinio, ex direttore di Avvenire. La candidatura di quest’ultimo viene sostenuta da Demos, l’organizzazione molto vicina alla Comunità di Sant’Egidio che alle scorse elezioni politiche ha fatto eleggere, sempre nelle liste dem, Paolo Ciani, uno dei deputati più attivi sul terreno pacifista. Ha più volte denunciato, ad esempio, che l’Unione europea non ha un rappresentante per la pace e si è schierato contro la cessione di armi a Israele all’indomani dell’attacco a Gaza. È vicino a Demos, peraltro, anche Pietro Bartolo, il medico dei migranti a Lampedusa che in questi anni ha fatto parte della delegazione del Pd a Bruxelles e che spesso, proprio sulla guerra, si è distinto dagli orientamenti del suo gruppo.

ASSIEME A LUI, tra i dissidenti, c’era anche Massimiliano Smeriglio, che ha scelto di correre a giugno con Alleanza Verdi Sinistra, l’altra lista che si candida a rappresentare il popolo della pace al parlamento europeo. Quelli di Avs rivendicano di essere gli unici a non aver mai votato a favore dell’invio di armi all’Ucraina, visto che (si era alla scorsa legislatura, sotto il governo Draghi) il Movimento 5 Stelle votò il decreto Ucraina, poi prorogato alla fine dello scorso anno da Meloni. Ciò nonostante, Giuseppe Conte ha sempre sostenuto la necessità di «imporre al conflitto russo-ucraino una svolta diplomatica».

INFINE, C’È LA LISTA «Pace, Terra e Dignità» promossa da Michele Santoro e Raniero La Valle, cui aderisce tra gli altri Rifondazione comunista, che sta raccogliendo le forme in questi giorni. In questo caso, la mobilitazione contro la guerra diventa la discriminante fondamentale, quasi una pre-condizione per l’agibilità politica. Santoro da tempo dice espressamente che il suo obiettivo è prendere i voti di chi altrimenti si asterrebbe. E rinfaccia ai potenziali interlocutori più prossimi (il Pd, Avs e M5S) di anteporre le ragioni della tattica politica e delle alleanze all’impegno contro la guerra.