La guerra e l’Europa, una politica ’sub specie aeterni’
Verso l'abisso Gorbaciov, l’uomo della "Casa Comune europea", ricevendo il Nobel per la pace: «Se la perestrojka fallisce, svanirà la prospettiva di entrare in un nuovo periodo di pace nella storia»
Davvero se vogliamo la pace dobbiamo preparare la guerra, come afferma Charles Michel, presidente attuale del Consiglio europeo, a conclusione del discorso con cui prepara il vertice che dovrà tradurre lo squillo di tromba in spesa di riarmo? Davvero è più unita, questa Ue, dopo le parole di Emmanuel Macron che non esclude l’invio di truppe europee in Ucraina e dopo il triangolo di Weimar, episodi entrambi che hanno finito di sfasciarne la ragione d’esistenza – la pace – nello stridore degli interessi nazionali e soprattutto elettorali differenti, con le elezioni europee alle porte?
Molte volte mi sono chiesta che cosa ci renda ciechi alla storia presente, impedendoci di discernere i torti e le ragioni, ma anche solo la vera grandezza e la vera miseria, almeno con il grado di lucidità con cui li discerniamo nelle azioni e negli eventi del passato: lucidità relativa, comunque non comparabile alla nebbia intrisa di menzogne che circonda le azioni mentre si svolgono, i fatti mentre accadono.
Perché da sempre le civiltà implodono e le guerre accadono prima che la coscienza media, comune, ne percepisca i segni: e tanto meno li percepiamo, quante più parole evocatrici di scenari catastrofici circolano sugli organi della coscienza quotidiana, i media appunto.
Dove, è vero, vige un’equiparazione fra le trombe dell’apocalisse, i risultati dei mondiali di calcio e la pubblicità delle vacanze, secondo le imperscrutabili ma democratiche leggi del giornalismo (o del nichilismo?).
La filosofia ha una risposta propositiva: bisogna scrivere di cose eterne perché siano di vera attualità, perché sia fatta luce sul presente. Lo sapeva Tomaš Masaryk, il fondatore di quella che fu la Repubblica Cecoslovacca indipendente, che nel suo La rivoluzione mondiale (1925) espose il suo luminoso credo: che la democrazia mondiale sia solo nella sua infanzia, e ci sia una «politica sub specie aeterni», che consiste nel costruirla. Questo filosofo cui fu dato, sia pure per poco, regnare con la ragion pratica edificando democrazia, aveva capito che senza il respiro dell’alto la democrazia muore asfissiata nel conflitto degli interessi economici e nazionali, smette di motivare la gioventù, e perde la sua essenza, che è di rinnovarsi ogni giorno dalle sue fonti etiche: non c’è speranza di futuro senza respiro dell’alto – ed è questa che volle chiamare «una politica dell’eternità». Un’iniezione di spirito che dissesta gli ingranaggi dell’amor proprio e della volontà di potenza. In quel suo grande libro lesse con sguardo lucidissimo e puro l’inutile strage che aveva insanguinato il globo; e vi vide lo scatenarsi di una tendenza assassina, omicida e suicida, di proporzioni planetarie, l’«oggettivazione violenta», nata dalla confusione di dio con l’io. Un io perfettamente liberato, prima, dal demone di Socrate e dai fastidiosi vincoli della giustezza, e poi da ogni cristiana pietà.
Lo sapeva Simone Weil, che a Londra nel 1943, chiusa in uno stanzino a passare carte purché non desse noia a de Gaulle che la riteneva una pazza, scrisse pagine Sul colonialismo – Verso un incontro fra Occidente e Oriente (a cura di Domenico Canciani, Medusa 2003), che insieme alla grandiosa opera sul Radicamento (e lo sradicamento di altre civiltà in cui il colonialismo consiste) individuano la condizione vera di una rinascita della civiltà europea: riconoscere la tragedia che incombe sull’Europa post-bellica. E cioè proclamare la civiltà dei diritti umani rimuovendo la faccia oscura della luna, il buio dietro lo splendore illuministico della modernità europea – la rapina dei continenti, l’orrore criminale del colonialismo, che è suicida, alla lunga, per chi lo perpetra. Perché la perdita del passato che è la vera tragedia umana, inflitta con la violenza ai popoli colonizzati (oggi vediamo cos’è, nella lente del genocidio di Gaza), è insieme la perdita dell’anima di chi assassina (cosa è divenuto Israele? Che ne è dell’eredità della prima religione monoteistica?).
Il passato è il deposito di «tutti i tesori spirituali» delle civiltà che l’Europa coloniale ha sradicato, a oriente, a sud, e anche entro se stessa. Contiene il miracolo greco, il cristianesimo evangelico, la filosofia arabo-musulmana, la spiritualità catara…Per questo una completa americanizzazione rappresenta un pericolo molto grave – la perdita del passato, l’avvitamento completo sul presente. Ossia – conclude assai profeticamente Simone – la ricaduta nell’idolatria che scrive i nomi di dio («i nostri valori») sulle bandiere e ne fa «parole assassine», menzogne come quelle che hanno in effetti giustificato le disastrose guerre americane fino a ieri. La «perdita del soprannaturale» diventa l’idolatria della forza: la politica dell’egemonia mondiale.
Ma lo sapeva anche il più grande sconfitto della storia contemporanea: Michail Gorbaciov. Che nell’ultimo suo scritto rilancia questo suo messaggio oltre la morte: «Nella politica mondiale odierna non c’è compito più importante e complicato di quello di ristabilire la fiducia fra la Russia e l’Occidente» (La posta in gioco. Manifesto per la pace e la libertà. Baldini e Castoldi 2020).
Pochi capirono che il disarmo nucleare iniziato a Reykjavik su sua iniziativa nel 1986 era per il nuovo leader russo l’aspetto «esterno» o globale della perelstrojka. Cioè di quella «rivoluzione democratica delle menti» che non una «parata delle sovranità» avrebbe dovuto produrre, ma la Casa Comune Europea, la realizzazione delle ragioni ideali per cui l’Unione europea si apprestava a nascere. È in questo senso che nel ’91, in occasione del conferimento del Premio Nobel per la pace, aveva detto: «Se la perestrojka fallisce, svanirà la prospettiva di entrare in un nuovo periodo di pace nella storia». Abbiamo visto come sta andando a finire
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