In questa maledetta guerra che sta massacrando la popolazione ucraina, distruggendo le città, provocando milioni di profughi, stiamo assistendo ad una corsa all’uso di armamenti sempre più distruttivi, sia come sistemi di difesa che di attacco. In questa escalation che non sappiamo quanto durerà e dove ci porterà, siamo spettatori impotenti di una competizione che alla fine stabilirà chi è il vincitore sul piano militare. Come in una gara di Formula1, in tutto il mondo gli occhi degli esperti (ministri della Difesa, generali, mercanti d’armi….) guardano attentamente a questa sfida militare per valutare la forza reale dei nuovi sistemi d’arma, le innovazioni tecnologiche apportate, al fine di stabilire possibili acquisti nel prossimo futuro. Soprattutto quei paesi che sono coinvolti, sia all’interno che all’esterno, da conflitti armati, attualmente ben 60 in Medio Oriente, Africa, Asia e America Latina.

Pertanto, la guerra in Ucraina rappresenta un’autentica fiera delle armi, molto più remunerativa, sul piano delle vendite, delle tradizionali fiere che si svolgono nei padiglioni ovattati delle grandi città, come quella, famosa, di Parigi a metà giugno. Nuove armi, infatti, per essere vendute devono dimostrare la loro efficacia sul terreno. A differenza di tante altre merci dove sono i consumatori che con il passaparola creano un giudizio positivo o negativo sulle novità introdotte, dove sono gli imprenditori, per le macchine utensili, che prima di acquistarle vogliono vederle all’opera, per i sistemi d’arma sono le guerre il solo test che dà un giudizio definitivo sul valore delle novità introdotte.

É molto probabile che in questo scontro micidiale tra la Nato e la Russia alla fine la tecnologia occidentale, in particolare made in Usa, risulti vincente. D’altra parte, è noto che gli States sono in guerra quasi ininterrottamente dal secondo conflitto mondiale, e l’industria militare è una colonna portante dell’impero nordamericano, del suo sistema militare-industriale: il 4% del Pil ed il 40% della spesa militare mondiale. Purtroppo, un modo di produzione che non è convertibile, come scrisse nel lontano ’73 James ‘0 Connor in The Fiscal Crisis of the State.

Ma, se gli Usa puntano, come dice il presidente Biden “a vincere la guerra”, non tengono conto che, a parte il rischio nucleare (che riguarda soprattutto l’Europa!), stanno perdendo l’altra colonna portante dell’economia a stelle e strisce: il signoraggio del dollaro. È il grande cambiamento in corso senza che i grandi analisti geopolitici se ne rendano conto. Da quando, nell’agosto del 1971, Nixon decretò lo sganciamento del dollaro dall’oro, mettendo una pietra tombale sugli accordi di Bretton Woods, il mondo capitalista ha finanziato ogni anno lo strutturale deficit della bilancia commerciale statunitense (arrivato a superare i 700 miliardi di dollari l’anno), ha finanziato l’enorme debito pubblico nordamericano, ha in sostanza permesso di mantenere un elevato standard di consumi, ovvero quello che George Bush Senior, dopo l’11 settembre definì “lo stile di vita degli americani non negoziabile”.

La ricerca di una alternativa al dollaro, come valuta di riserva e di scambio internazionale (circa il 70 per cento di tutte le transazioni) è già partito da qualche anno e vede tra i protagonisti la Cina, il grande e vero competitor degli Usa. Un mondo multipolare, come in tanti auspichiamo, non può che fondarsi su un paniere di monete-forti (il dollaro, l’euro, lo yuan, il rublo, la sterlina), come propose nel 1944 il grande Keynes, incontrando il diniego del presidente Roosevelt.

Questa guerra non fa altro che accelerare quella rivoluzione monetaria che il governo cinese aveva già avviato da qualche anno attraverso accordi con India e Russia di scambi commerciali basati sulle valute nazionali. Quando Mosca chiede che gas e petrolio siano pagati in rubli, anche se lo fa come ritorsione, va di fatto ad accelerare questo processo di sganciamento dal dollaro, guidato dalla Cina.

Morale della favola noir: questa guerra sta portando a cambiamenti radicali e irreversibili con cui fare i conti. Disarmo e de-finanziarizzazione dell’economia si impongono unitamente ad una profonda conversione ecologica, nella costruzione di un cammino di pace tra gli esseri umani e la natura. Oggi può sembrare una utopia, ma è proprio nei momenti più tragici della storia che si può intravedere una luce, come ci ha insegnato Altiero Spinelli con il suo Manifesto di Ventotene nel 1941, nel pieno delirio della seconda guerra mondiale.

La formazione di un mondo multipolare è ormai una necessità nel XXI secolo, ma questo processo potrà avvenire senza guerre e distruzioni solo se l’Onu troverà il suo ruolo di piattaforma reale di incontro tra le diverse nazioni. A partire da adesso, da una sua forte presenza di interposizione in Ucraina per porre fine a questa guerra.