Una volta, da bambina, camminavo con mia madre e incontrammo di faccia un corteo. Mia madre salutò i manifestanti, con ampio cenno del braccio. Me lo ricordo perché mi imbarazzai, lei mi disse: si fa così, se non puoi partecipare li saluti. E significa «avrei voluto». Imparavo la grammatica della piazza.

Quello che ho visto ieri (alla manifestazione nazionale contro la violenza maschile di Roma, ndr) è stato questo: un reciproco apprendimento. Giovani imparavano dai vecchi, vecchi dai giovani. Una signora sulla settantina con un cartello: «Voglio starci oggi, non voglio aspettare la tomba». E ragazzi che imparavano dalle ragazze. Moltissimi ragazzi, forse i più commoventi erano loro. Giovani con la barba non ancora del tutto spuntata e quella voce cavernosa e bassa dei maschi che l’hanno cambiata da poco e che gridavano: «Siamo l’urlo altissimo e feroce di tutte quelle donne che non hanno più voce».

Ci ho pensato, come sarebbe bello se fosse sempre così, come sarà bello quando sarà vero.

E poi i bambini, immediatamente figli di tutti, che si sono trovati in questa che per loro era una inaspettata festa. Che imparavano la grammatica della piazza.

«Quante persone ci saranno?», ci siamo chieste quando il Circo Massimo era colmo. «Non lo sapremo mai, ma più di quelle che mi aspettavo» era la risposta, in cui c’è la totale sfiducia verso chi ci conta e una rinnovata meraviglia nell’esserci. E dalla meraviglia nasce la speranza.

Alcuni segni che non potevano non farci piangere.

Una corona d’alloro listata di rosso portata da un ragazzo appena laureato, che appariva come un segno funebre. Un cartello, diviso per mesi: macabro calendario con i nomi delle morti per femminicidio. Un papà per mano con suo figlio cieco. Uno striscione: «Ci volete sepolte ma non sapete che siamo semi». E quel miracolo che si compie ogni volta che una piazza risponde, per civiltà, per sentirsi umani, parte di una comunità che si rispetta. Che tutti diventano pari (non uguali, ma pari), che tutti si danno del tu, si sorridono, sono accorti l’uno verso l’altro. Che scompare la prevaricazione e nasce la sorellanza, la fratellanza.

È la grammatica della piazza: il contrario di quella esercitata nei dibattiti televisivi, il contrario di quella che funziona sui social.

Questa è la piazza che hanno cercato di smontare, di depauperare, questa è la piazza che hanno temuto, un posto dove ognuno portava la propria istanza semplice, sacrosanta, in nome di tutte e tutti e anche di chi non c’era e sarebbe voluto esserci. Perché tutte vuol dire tutte, non vuol dire un’altra cosa.

In treno, all’andata, una bambina aveva scritto su un A4 «Contro la violenza». Il papà con un segno rosso sulla guancia ha corretto: «Sulle donne», e la bambina «ma è uguale, papà». È così ognuno ha portato il suo segno, il foulard dell’Anpi, il gagliardetto di un liceo, le stampelle.

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Dai balconi la gente salutava i manifestanti e io sapevo che si faceva così. «Per una volta che mia madre scende in piazza non la vedo», faceva un ragazzo armato di telefonino. «Sai quante volte tua mamma è scesa in piazza e tu non lo sai», lo ha aiutato a comprendere una signora. «Da quando mi ricordo io, mai». «E chiediti perché» . E lui ci ha pensato. Ecco, la madre era tornata in piazza, da qualche parte il figlio la aspettava per scattare una foto, per incontrarsi ancora oltre i generi e le età, in quella grammatica comune: l’unica su cui può fondarsi una società che voglia dirsi tale.